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Letteratura


Pinkerton

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Guest zeitnote
On 13/12/2016 at 00:38, giordanoted dice:

E credo che quest'anno a Natale mi regalerò finalmente lo Zibaldone.

Dopodiché potrei rischiare di passare la vita a leggerlo, e non finirlo. Ma che importa. Importante è solo l'illusione, come diceva l'autore.

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Hai per caso avuto modo di saggiare quest'edizione - amvedi - storicamente informata?

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2 ore fa, zeitnote dice:

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Hai per caso avuto modo di saggiare quest'edizione - amvedi - storicamente informata?

No Zeit, tanto per cambiare non ho tenuto fede all'impegno assunto con me stesso, e non ho acquistato lo Zibaldone.

Ma questa è l'edizione che ho sempre sott'occhio nella libreria che frequento.

Dovrebbe essere buona.

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Guest Virgin12

[…] Alla fine mio padre riuscì ancora a far tirare fuori la lingua a quel Krainer, che era davvero pazzo e storpio dalla testa ai piedi. Mentre lui scriveva una ricetta, feci una strana scoperta: alle quattro pareti della stanza nella quale, per mancanza di spazio, i due figli dei Krainer sono costretti a convivere in maniera raccapricciante, è appesa una serie di grandi incisioni, probabilmente, pensai, di proprietà del principe, le quali raffigurano i Grandi della musica. Dapprima non avevo affatto notato che tutte quelle incisioni – incisioni francesi, non a colori – raffiguravano dei musicisti. All’improvviso vidi però che su tutte le incisioni il giovane Krainer aveva tracciato delle scritte con inchiostro rosso. Sopra la testa di Mozart ha scritto: “Grandissimo!”, sopra la testa di Beethoven “Più tragico di me!”, sopra la testa di Haydn “Testa di maiale” e sopra quella di Gluck “Non mi piaci!”. A Hector Berlioz gli ha scritto sulla faccia “Orrendo” e a Franz Schubert “Effeminizzato!. Le due incisioni appese dietro il suo letto non riuscii a vederle bene e neanche a decifrarne le scritte. Il giovane Krainer, che mi aveva osservato tutto il tempo mentre mi sforzavo di decifrare le scritte, quando vide che le due incisioni sopra il suo letto non arrivavo a vederle, esplose in una risata di scherno. Sulla faccia di Anton Bruckner aveva scritto “Tingeltangel”, su quella di Purcell “Piantala, scozzesuccio!”.

Sotto una grande fotografia di Béla Bartok aveva scritto “Io ascolto!”. Nell’angolo dove ero rimasto seduto per tutto quel tempo, scoprii prima di uscire, tre violini, tutti e tre con i manici rotti, e tutti e tre tenuti insieme per mezzo di uno spago. […]

 

(TB)

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  • 2 weeks later...
  • 2 weeks later...

Non sono un gran lettore di narrativa. Comunque ho da poco finito di leggere City di Baricco (su consiglio di mia moglie che ha molto apprezzato i suoi primi libri, salvo poi abbandonarlo da un certo punto in poi).

Mah, sa scrivere veramente bene, però mi sembra finisca molto spesso per fare sfoggio di tecnica e basta. Ci sono pagine e pagine di conversazioni intorno al nulla tra i personaggi che scorrono anche, ma che ad un certo punto mi snervano. Le cose più belle sono le due sotto storie (il western e la storia sul pugilato) inventate dai due protagonisti. Ci sono anche alcune belle riflessioni, ma se ci ripenso le vedo annacquate nella vacuità generale.

A questo punto, visto che mia moglie mi ha detto che questo è per lei il suo libro migliore, eviterò di leggere gli altri (dove mi ha detto che il rapporto tecnica-contenuto pende ancora di più a favore della prima).

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  • 2 weeks later...
Guest Virgin12

Demoniaco: dalla concezione mistico-religiosa dell’antichità fino ai giorni nostri la parola è passata per tanti significati e tante interpretazioni, ch’è necessario darne qui una personale.

Chiamo demoniaca quell’irrequietezza originaria nell’uomo ed essenziale alla sua natura, che lo spinge fuor di se stesso, al di là di se stesso, nell’Infinito, nel mondo elementare, quasi che la natura abbia lasciato in ogni singola anima un’inalienabile particella irrequieta del suo antico caos, e quella particella voglia ritornare, con tensione e passione, nel Sovrumano, nel Sovrasensibile. Il demone personifica entro di noi quel lievito, quel fermento che pullula su, tormenta, fa vibrare, e spinge l’esistenza normalmente tranquilla verso ogni forma di pericolo, d’eccesso, d’estasi, di rinuncia a se stesso, di distruzione di se stesso. […]

Il demone può raggiungere la sua patria, il suo elemento, l’Infinito, solo distruggendo senza pietà il finito, il terreno, cioè il corpo nel quale ha preso dimora; incomincia con l’allargare ma tende a far scoppiare.

[…] Primo indizio dell’elemento demoniaco è sempre l’inquietudine della vita, inquietudine del sangue, inquietudine dei nervi, inquietudine dello spirito; perciò si chiamano demoniache anche le donne che diffondono un cielo temporalesco di pericolo e di minaccia di pericoli per la vita, un’atmosfera tragica, l’ansito del destino.

Così ogni uomo spirituale, ogni creatore, arriva ineluttabilmente alla lotta col suo demone, ed è sempre una lotta eroica, sempre una lotta d’amore: la più bella che l’uomo possa combattere.

 

(da La lotta col demone, Stefan Zweig)

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  • 3 weeks later...
27 minuti fa, noone dice:
L' incipit de Il grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald.
 
In my younger and more vulnerable years my father gave me some advice that I've been turning over in my mind ever since.
"Whenever you feel like critizing anyone", he told me, "just remember that all the people in this world haven't had the advantages that you've had".
He didn't say any more, but we've always been unusually communicative in a reserved way, and I understood that he meant a great deal more than that.
In consequence, I'm inclined to reserve all judgements, a habit that has opened up many curious natures to me and also made me victim of not a few veteran bores.
 
Negli anni più vulnerabili della giovinezza, mio padre mi diede un consiglio che non mi è mai più uscito di mente.
"Quando ti vien voglia di criticare qualcuno" mi disse "ricordati che non tutti a questo mondo hanno avuto i vantaggi che hai avuto tu". Non disse altro, ma eravamo sempre stati insolitamente comunicativi nonostante il nostro riserbo, e capii che voleva dire molto più di questo. Perciò ho la tendenza a evitare ogni giudizio, una abitudine che oltre a rivelarmi molti caratteri strani mi ha anche reso vittima di non pochi scocciatori inveterati.
 
Traduzione di Fernanda Pivano

 

"Quella fu la fine della vita a Parigi. Parigi non sarebbe mai più stata la stessa anche se era sempre Parigi e tu cambiavi mentre cambiava lei. Non tornammo mai piu' nel Vorarlberg e nemmeno i ricchi vi tornarono più.
Per Parigi non ci sarà mai fine e i ricordi di chi ci ha vissuto differiscono tutti gli uni dagli altri. Si finiva sempre per tornarci, a Parigi, chiunque fossimo, comunque essa fosse cambiata o quali che fossero le difficoltà, o la facilità con la quale si poteva raggiungerla. Parigi ne valeva sempre la pena e qualsiasi dono tu le portassi tu ne ricevevi qualcosa in cambio. Ma questa era la Parigi dei bei tempi andati, quando eravamo molto poveri e molto felici.
"

 

(E.H., "Festa Mobile", postumo)

 

Forse il più bel finale, Maddalena, della narrativa del novecento.

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Guest Virgin12

Dolce tesoro mio,  come stai? 

Anche oggi ti ho cercata al telefono e tu non c'eri,  ma lì,  nella tua lontananza,  ti trattano bene? 

Mi raccomando: se solo ti sfiorano un capello, 

tu mandami a dire. 

 

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  • 2 weeks later...
Guest Virgin12

In qualsiasi amore vi ha un quarto d'ora, in cui la vittoria è facile e certa. Guai a colui o a colei che non ne approfittano.

Quel quarto d'ora non torna più. 

(maggio 1887)

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3 minuti fa, Virgin12 dice:

In qualsiasi amore vi ha un quarto d'ora, in cui la vittoria è facile e certa. 

 

Ma io non lo sapevo

che era una partita.

Posso dartela vinta

e tenermi la mia vita.

 

( F. De Gregori, 1975)

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Guest Virgin12
19 ore fa, Pinkerton dice:

 

Ma io non lo sapevo

che era una partita.

Posso dartela vinta

e tenermi la mia vita.

 

( F. De Gregori, 1975)

 

Ma se la vita smette di aiutarti

è più difficile dimenticarti

di quelle felicità intraviste

dei baci che non si è osato dare

delle occasioni lasciate ad aspettare

degli occhi mai più rivisti.

 

(Brassens/De Andrè)

 

 

 

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"Disteso sul lettuccio, fuori dell'alone del lume a petrolio, mentre fantasticava sulla propria vita, Giovanni Drogo invece fu preso improvvisamente dal sonno. E intanto, proprio quella notte - oh, se l'avesse saputo, forse non avrebbe avuto voglia di dormire - proprio quella notte cominciava per lui l'irreparabile fuga del tempo.

Fino allora egli era avanzato per la spensierata età della prima giovinezza, una strada che da bambini sembra infinita, dove gli anni scorrono lenti e con passo lieve, così che nessuno nota la loro partenza. Si cammina placidamente, guardandosi con curiosità attorno, non c'è proprio bisogno di affrettarsi, nessuno preme di dietro e nessuno ci aspetta, anche i compagni procedono senza pensieri, fermandosi spesso a scherzare. Dalle case, sulle porte, la gente grande saluta benigna, e fa cenno indicando l'orizzonte con sorrisi di intesa; così il cuore comincia a battere per eroici e teneri desideri, si assapora la vigilia delle cose meravigliose che si attendono più avanti; ancora non si vedono, no, ma è certo, assolutamente certo che un giorno ci arriveremo.

Ancora molto? No, basta attraversare quel fiume laggiù in fondo, oltrepassare quelle verdi colline. O non si è per caso già arrivati? Non sono forse questi alberi, questi prati, questa bianca casa quello che cercavamo? Per qualche istante si ha l'impressione di si e ci si vorrebbe fermare. Poi si sente dire che il meglio è più avanti e si riprende senza affanno la strada.

Così si continua il cammino in una attesa fiduciosa e le giornate sono lunghe e tranquille, il sole risplende alto nel cielo e sembra non abbia mai voglia di calare al tramonto. Ma a un certo punto, quasi istintivamente, ci si volta indietro e si vede che un cancello è stato sprangato alle spalle nostre, chiudendo la via del ritorno. Allora si sente che qualche cosa è cambiato, il sole non sembra più immobile, ma si sposta rapidamente, ahimè, non si fa tempo a fissarlo che già precipita verso il confine dell'orizzonte, ci si accorge che le nubi non ristagnano più nei golfi azzurri del cielo, ma fuggono accavallandosi l'una sull'altra, tanto è il loro affanno; si capisce che il tempo passa e che la strada un giorno dovrà pur finire.

Chiudono a un certo punto alle nostre spalle un pesante cancello, lo rinserrano con velocità fulminea e non si fa tempo a tornare. Ma Giovanni Drogo in quel momento dormiva ignaro e sorrideva nel sonno come fanno i bambini.

Passeranno dei giorni prima che Drogo capisca ciò che è successo. Sarà allora come un risveglio. Si guarderà attorno incredulo; poi sentirà un trapestio di passi sopraggiungenti alle spalle, vedrà la gente, risvegliatasi prima di lui, che corre affannosa e lo sorpassa per arrivare in anticipo. Sentirà il battito del tempo scandire avidamente la vita. Non più alle finestre si affacceranno ridenti figure, ma volti immobili e indifferenti. E se lui domanderà quanta strada rimane, loro faranno si ancora cenno all'orizzonte, ma senza alcuna bontà e letizia. Intanto i compagni si perderanno di vista, qualcuno rimane indietro sfinito, un altro è fuggito innanzi, oramai non è più che un minuscolo punto all'orizzonte.

Dietro quel fiume - dirà la gente - ancora dieci chilometri e sarai arrivato. Invece non è mai finita, le giornate si fanno sempre più brevi, i compagni di viaggio più radi, alle finestre stanno apatiche figure pallide che scuotono il capo.

Fino a che Drogo rimmarà completamente solo e all'orizzonte ecco la striscia di uno smisurato mare immobile, colore di piombo. Oramai sarà stanco, le case lungo la via avranno quasi tutte le finestre chiuse e le rare persone visibili gli risponderanno con un gesto sconsolato: il buono era indietro, molto indietro e lui ci è passato davanti senza sapere. Oh, è troppo tardi ormai per ritornare, dietro a lui si amplia il rombo della moltitudine che lo segue, sospinta dalla stessa illusione, ma ancora invisibile sulla bianca strada deserta.

Giovanni Drogo adesso dorme nell'interno della terza ridotta. Egli sogna e sorride. Per le ultime volte vengono a lui nella notte le dolci immagini di un mondo completamente felice. Guai se potesse vedere se stesso, come sarà un giorno, là dove la strada finisce, fermo sulla riva del mare di piombo, sotto un cielo grigio e uniforme e intorno né una casa né un uomo né un albero, neanche un filo d'erba, tutto così da immemorabile tempo."

Scusate la prolissità, ma dovevo postare questo passo, che trovo magnifico, da "Il deserto dei tartari" di Dino Buzzati. 

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19 ore fa, Virgin12 dice:

 

Ma se la vita smette di aiutarti

è più difficile dimenticarti

di quelle felicità intraviste

dei baci che non si è osato dare

delle occasioni lasciate ad aspettare

degli occhi mai più rivisti.

 

(Brassens/De Andrè)

 

 

 

 

 

E chissà quanti ne hai visti e quanti ne vedrai
di giocatori tristi che non hanno vinto mai
ed hanno appeso le scarpe a qualche tipo di muro
e adesso ridono dentro a un bar
e sono innamorati da dieci anni
con una donna che non hanno amato mai
Chissà quanti ne hai veduti, chissà quanti ne vedrai

 

( F. De Gregori)

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  • 2 weeks later...

Questo mi pare un bel momento di spietata lucidità autoriflessiva:

"Ci sono ancora storie possibili, storie per scrittori? Se uno non intende raccontare di sé, né generalizzare in termini romantici, lirici il proprio Io, se non si sente obbligato a parlare con spietata sincerità delle proprie speranze e sconfìtte o di come fa all’amore, quasi l’assoluta veridicità ne facesse un caso universale e non invece, nella migliore delle ipotesi, un caso clinico, psicologico, se uno non vuole tutto ciò e intende invece tirarsi da parte con discrezione, difendere cortesemente le faccende private, ponendosi di fronte al proprio tema come uno scultore di fronte alla materia da cui trarre una statua, lavorando a quel tema e grazie ad esso sviluppandosi, nell’intento, come una volta i classici, di non cedere subito alla disperazione, anche se non può certo negare l’assurdo che ovunque viene a galla, allora scrivere diventa un mestiere più diffìcile, più solitario e anche più insensato, un bel voto nella storia della letteratura non ha alcuna importanza (chi non s’è preso il suo bel voto, e quanti libri raffazzonati non hanno avuto il loro premio...), le istanze del giorno sono più urgenti. Ma anche qui ci troviamo di fronte a un dilemma e a una sfavorevole situazione di mercato. Il semplice divertimento te lo offre già la vita: la sera il cinema, e la poesia nella pagina culturale dei giornali; in cambio di un maggior esborso, ossia, sociologicamente parlando, nella categoria da un franco in su, si pretendono anima, confessioni, veridicità appunto: bisogna fornire valori più alti, moralità, sentenze di facile uso, qualcosa deve essere superato o riscuotere consenso, ora il cristianesimo ora la disperazione alla moda; insomma, letteratura bell’e buona. E se l’autore si rifiuta invece, sempre di più e in modo sempre più caparbio, di produrre roba del genere? e lo fa poiché si rende ben conto che la ragione per cui scrive va cercata in lui stesso, nella sua coscienza e nel suo inconscio, in varie proporzioni caso per caso, nella sua fede e nei suoi dubbi, ma al tempo stesso è del parere che proprio tali faccende non riguardino affatto il pubblico, che sia invece sufficiente quanto egli scrive, crea e modella, e che si mostri la superficie in modo attraente e questa soltanto, che si lavori su di essa e non su altro, tenendo la bocca chiusa su tutto il resto, senza commenti e ciance? Giunto a tale consapevolezza lo scrittore si arrestererà perplesso e sgomento, è inevitabile. Sorge allora il sospetto che non ci sia più nulla da raccontare, e si prende seriamente in considerazione la possibilità di cambiar mestiere, forse restano ancora alcune frasi, ma poi si vira nella biologia per far fronte, almeno col pensiero, all’esplosione del genere umano, ai miliardi di individui che avanzano, ai ventri gravidi che incessantemente sfornano prole, oppure si passa alla fisica, all’astronomia, per rendersi conto, mossi da un bisogno d’ordine, dell’impalcatura su cui noi tutti pencoliamo. Il resto è roba da rotocalchi, per il « Life », il « Match », il « Quick » o per « Sie und Er »: il presidente sotto la tenda a ossigeno, il buon Bulganin nell’orticello, la principessa con quel suo glorioso capitano d’aviazione, stelle del cinema e facce di gente piena di dollari, l’uno vale l’altro, non fai in tempo a parlarne che è già fuori moda. E, accanto a tutto questo, la vita dell’uomo qualsiasi; nel mio caso: occidentale ed europeo, svizzero, per la precisione, brutto tempo e congiuntura favorevole, affanni e tormenti, traumi da vicende private, ma senza alcun rapporto con l’insieme dell’universo, con il corso delle cose sensate e insensate, col dipanarsi delle necessità. Il destino ha abbandonato la scena su cui si recita, per appostarsi dietro le Quinte, al di fuori della drammaturgia canonica - e le malattie, le crisi, messe in primo piano, si riducono tutte a banali incidenti. Persino la guerra finisce per dipendere dall’eventualità che i cervelli elettronici ne prevedano la convenienza, ma si sa, è un caso destinato a non avverarsi mai, ammesso che le macchine da computo funzionino, matematicamente si possono concepire oggigiorno solo sconfitte; guai però se qualcuno manipola un calcolo, se manomette un cervello elettronico; eppure anche questo sarebbe meno increscioso della possibilità che una vite si allenti, una bobina vada fuori fase, un sensore non reagisca a dovere: la fine del mondo per un corto circuito tecnico, per un contatto sbagliato. Non vi è più un dio che minacci, né una giustizia, né un fato come nella quinta sinfonia; ci sono solo incidenti stradali, dighe che cedono per un errore di costruzione, fabbriche di ordigni nucleari che saltano in aria per colpa di un tecnico distratto, incubatrici regolate male. In questo mondo di panne conduce la nostra strada, al cui margine polveroso, accanto a cartelloni pubblicitari di scarpe Bally, di Studebaker, di gelati, accanto alle lapidi in memoria delle vittime del traffico, si intravedono alcune storie possibili, nel senso che dal volto di un uomo qualunque fa capolino l’umanità, un semplice contrattempo si dilata involontariamente a fenomeno universale, giudici e giustizia fanno la loro comparsa, e forse anche la grazia - per caso catturata e riflessa dal monocolo di un ubriaco."

Friedrich Dürrenmatt : Die Panne. Eine noch mögliche Geschichte. (1956) [tr.it. di Eugenio Bernardi : La Panne. Una storia ancora possibile, Adelphi, Milano 1986, pp.9-13]

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3 ore fa, zeitnote dice:

Questo mi pare un bel momento di spietata lucidità autoriflessiva:

"Ci sono ancora storie possibili, storie per scrittori? Se uno non intende raccontare di sé, né generalizzare in termini romantici, lirici il proprio Io, se non si sente obbligato a parlare con spietata sincerità delle proprie speranze e sconfìtte o di come fa all’amore, quasi l’assoluta veridicità ne facesse un caso universale e non invece, nella migliore delle ipotesi, un caso clinico, psicologico, se uno non vuole tutto ciò e intende invece tirarsi da parte con discrezione, difendere cortesemente le faccende private, ponendosi di fronte al proprio tema come uno scultore di fronte alla materia da cui trarre una statua, lavorando a quel tema e grazie ad esso sviluppandosi, nell’intento, come una volta i classici, di non cedere subito alla disperazione, anche se non può certo negare l’assurdo che ovunque viene a galla, allora scrivere diventa un mestiere più diffìcile, più solitario e anche più insensato, un bel voto nella storia della letteratura non ha alcuna importanza (chi non s’è preso il suo bel voto, e quanti libri raffazzonati non hanno avuto il loro premio...), le istanze del giorno sono più urgenti. Ma anche qui ci troviamo di fronte a un dilemma e a una sfavorevole situazione di mercato. Il semplice divertimento te lo offre già la vita: la sera il cinema, e la poesia nella pagina culturale dei giornali; in cambio di un maggior esborso, ossia, sociologicamente parlando, nella categoria da un franco in su, si pretendono anima, confessioni, veridicità appunto: bisogna fornire valori più alti, moralità, sentenze di facile uso, qualcosa deve essere superato o riscuotere consenso, ora il cristianesimo ora la disperazione alla moda; insomma, letteratura bell’e buona. E se l’autore si rifiuta invece, sempre di più e in modo sempre più caparbio, di produrre roba del genere? e lo fa poiché si rende ben conto che la ragione per cui scrive va cercata in lui stesso, nella sua coscienza e nel suo inconscio, in varie proporzioni caso per caso, nella sua fede e nei suoi dubbi, ma al tempo stesso è del parere che proprio tali faccende non riguardino affatto il pubblico, che sia invece sufficiente quanto egli scrive, crea e modella, e che si mostri la superficie in modo attraente e questa soltanto, che si lavori su di essa e non su altro, tenendo la bocca chiusa su tutto il resto, senza commenti e ciance? Giunto a tale consapevolezza lo scrittore si arrestererà perplesso e sgomento, è inevitabile. Sorge allora il sospetto che non ci sia più nulla da raccontare, e si prende seriamente in considerazione la possibilità di cambiar mestiere, forse restano ancora alcune frasi, ma poi si vira nella biologia per far fronte, almeno col pensiero, all’esplosione del genere umano, ai miliardi di individui che avanzano, ai ventri gravidi che incessantemente sfornano prole, oppure si passa alla fisica, all’astronomia, per rendersi conto, mossi da un bisogno d’ordine, dell’impalcatura su cui noi tutti pencoliamo. Il resto è roba da rotocalchi, per il « Life », il « Match », il « Quick » o per « Sie und Er »: il presidente sotto la tenda a ossigeno, il buon Bulganin nell’orticello, la principessa con quel suo glorioso capitano d’aviazione, stelle del cinema e facce di gente piena di dollari, l’uno vale l’altro, non fai in tempo a parlarne che è già fuori moda. E, accanto a tutto questo, la vita dell’uomo qualsiasi; nel mio caso: occidentale ed europeo, svizzero, per la precisione, brutto tempo e congiuntura favorevole, affanni e tormenti, traumi da vicende private, ma senza alcun rapporto con l’insieme dell’universo, con il corso delle cose sensate e insensate, col dipanarsi delle necessità. Il destino ha abbandonato la scena su cui si recita, per appostarsi dietro le Quinte, al di fuori della drammaturgia canonica - e le malattie, le crisi, messe in primo piano, si riducono tutte a banali incidenti. Persino la guerra finisce per dipendere dall’eventualità che i cervelli elettronici ne prevedano la convenienza, ma si sa, è un caso destinato a non avverarsi mai, ammesso che le macchine da computo funzionino, matematicamente si possono concepire oggigiorno solo sconfitte; guai però se qualcuno manipola un calcolo, se manomette un cervello elettronico; eppure anche questo sarebbe meno increscioso della possibilità che una vite si allenti, una bobina vada fuori fase, un sensore non reagisca a dovere: la fine del mondo per un corto circuito tecnico, per un contatto sbagliato. Non vi è più un dio che minacci, né una giustizia, né un fato come nella quinta sinfonia; ci sono solo incidenti stradali, dighe che cedono per un errore di costruzione, fabbriche di ordigni nucleari che saltano in aria per colpa di un tecnico distratto, incubatrici regolate male. In questo mondo di panne conduce la nostra strada, al cui margine polveroso, accanto a cartelloni pubblicitari di scarpe Bally, di Studebaker, di gelati, accanto alle lapidi in memoria delle vittime del traffico, si intravedono alcune storie possibili, nel senso che dal volto di un uomo qualunque fa capolino l’umanità, un semplice contrattempo si dilata involontariamente a fenomeno universale, giudici e giustizia fanno la loro comparsa, e forse anche la grazia - per caso catturata e riflessa dal monocolo di un ubriaco."

Friedrich Dürrenmatt : Die Panne. Eine noch mögliche Geschichte. (1956) [tr.it. di Eugenio Bernardi : La Panne. Una storia ancora possibile, Adelphi, Milano 1986, pp.9-13]

La sortita di Durrenmatt, Zeit, ha l'aspetto di una apocalittica ricapitolazione,  e' il trionfo dell'oggettivazione, dell'analisi che annienta la meraviglia, della cronaca che esautora il mito e sancisce un punto di non ritorno. La storia dell'uomo viene riconosciuta come un diario di errori e, come tale, non puo' che concludersi in catastrofe.

Restano la preistoria e il dopostoria, inossidabili solo perche' ignoti.

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  • 3 weeks later...

pomeriggio ho trovato su un divanetto una copia ancora non letta del corriere della sera. le pagine erano ancora attaccate l'una all'altra. croccanti. non era il mio turno, avevo ancora i capelli un po' più lunghi di ora, allora l'ho aperto direttamente alla pagina cultura come facevo un tempo.

ho trovato un articoletto in alto a destra...un nuovo romanzo del mio amato richard ford. in italia da metà maggio.

nell'altra pagina una brutta notizia di cui non sapevo...la morte di pirsig.

mi hanno chiamato e ho richiuso il giornale.

a metà maggio, appena uscirà, comprerò questo:

9781408884683.jpg

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  • 2 weeks later...
  • 1 month later...

Una volta, un mercoledì delle ceneri, andai in chiesa e mi misi in fila. Guardai le statue, le targhe e le colonne, le vetrate istoriate, e poi andai alla balaustra d’altare e mi inginocchiai. Il prete mi si avvicinò e mi segnò, una chiazza di cenere benedetta impressa sulla fronte col pollice. Polvere sei. Io non ero cattolico, i miei genitori non erano cattolici. Non sapevo cosa fossimo. Eravamo della religione del «mangia e dormi», del «porta il vestito di papà in tintoria».
(...)
Avrei voluto che quella macchia mi rimanesse per giorni, settimane. Quando arrivai a casa, mia madre si allontanò leggermente da me, come per guardarmi da più distante. Una rapidissima occhiata. Mi sforzai di non sorridere: il mio era un sorriso da becchino. Disse che i mercoledì di tutta la Terra sono sempre noiosi. Un po’ di cenere, una spesa minima, ed ecco che un mercoledì, qua e là nel mondo, ti diventa un evento da ricordare, così disse.

Don DeLillo, Zero K

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On 20/6/2017 at 15:20, zeitnote dice:

Una volta, un mercoledì delle ceneri, andai in chiesa e mi misi in fila. Guardai le statue, le targhe e le colonne, le vetrate istoriate, e poi andai alla balaustra d’altare e mi inginocchiai. Il prete mi si avvicinò e mi segnò, una chiazza di cenere benedetta impressa sulla fronte col pollice. Polvere sei. Io non ero cattolico, i miei genitori non erano cattolici. Non sapevo cosa fossimo. Eravamo della religione del «mangia e dormi», del «porta il vestito di papà in tintoria».
(...)
Avrei voluto che quella macchia mi rimanesse per giorni, settimane. Quando arrivai a casa, mia madre si allontanò leggermente da me, come per guardarmi da più distante. Una rapidissima occhiata. Mi sforzai di non sorridere: il mio era un sorriso da becchino. Disse che i mercoledì di tutta la Terra sono sempre noiosi. Un po’ di cenere, una spesa minima, ed ecco che un mercoledì, qua e là nel mondo, ti diventa un evento da ricordare, così disse.

Don DeLillo, Zero K

potente

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On 24/6/2017 at 11:13, vul dice:

potente

Mai quanto questo:

"Sappiamo infatti che la Legge è spirituale, mentre io sono di carne, venduto come schiavo del peccato. Non capisco ciò che faccio: infatti io faccio non quello che voglio, ma quello che detesto. Ora, se faccio quello che non voglio, riconosco che la Legge è buona; quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene: in me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Dunque io trovo in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me."

Paolo di Tarso, Lettera ai Romani 7-17

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5 ore fa, zeitnote dice:

Mai quanto questo:

"Sappiamo infatti che la Legge è spirituale, mentre io sono di carne, venduto come schiavo del peccato. Non capisco ciò che faccio: infatti io faccio non quello che voglio, ma quello che detesto. Ora, se faccio quello che non voglio, riconosco che la Legge è buona; quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene: in me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Dunque io trovo in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me."

Paolo di Tarso, Lettera ai Romani 7-17

Anche nel passo paolino, Zeit, il nucleo ermeneutico e' linguistico, la chiave di volta sta nella lingua, in ispecie nell'ortografia. La parola "legge" compare tre volte, le prime due in maiuscola e la terza in minuscola. E , me lo devi ammettere, Zeit, tra "Legge" e "legge" c'e' una bella differenza.

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6 ore fa, zeitnote dice:

Mai quanto questo:

"Sappiamo infatti che la Legge è spirituale, mentre io sono di carne, venduto come schiavo del peccato. Non capisco ciò che faccio: infatti io faccio non quello che voglio, ma quello che detesto. Ora, se faccio quello che non voglio, riconosco che la Legge è buona; quindi non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Io so infatti che in me, cioè nella mia carne, non abita il bene: in me c’è il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo; infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio. Ora, se faccio quello che non voglio, non sono più io a farlo, ma il peccato che abita in me. Dunque io trovo in me questa legge: quando voglio fare il bene, il male è accanto a me."

Paolo di Tarso, Lettera ai Romani 7-17

Per curiosità, quale versione hai utilizzato per questa citazione? 

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