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Le recensioni operistiche discografiche di Wittelsbach


Wittelsbach

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3 ore fa, Wittelsbach dice:

Secondo te tra soprano e tenore "vince" il tenore?

No, Wittel, anche se è un una lotta fra poveri vince il soprano perché, malgrado un assetto vocale non perfetto, almeno è viva, interpreta quasi sempre. Borso' quasi mai.

 

 

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Incredibile come due delle Traviate più controverse della storia del disco, questa e quella di Kleiber, abbiano a mio modo di vedere gli stessi punti di contatto: l'essere appunto controverse (di consenso critico nient'affatto plebiscitario), l'avere soprano e tenore almeno in parte deficitari accanto a baritoni che se la cavano viceversa bene, e una condotta orchestrale che presta il fianco a molte perplessità.

Io non amo né l'una né l'altra, ma riconosco che a quella di Kleiber, pure menomata da un atteggiamento verso la partitura degno di vent'anni prima in materia di tagli, è da attribuire una varietà ritmica che invece Arturo Toscanini rifiuta del tutto. Dicono che Traviata sia il disco di Toscanini più bersagliato dai critici, anche anglosassoni. Beh, posso capire perché. Toscanini è ossessivo, ai limiti del metronomico e anche oltre. Non puoi dirigere Traviata senza un minimo di sprezzatura ritmica e dinamica, altrimenti ottieni solo una corsa a perdifiato che corre e corre senza sapere dove. Questo collage di recite in forma di concerto di fronte a un disciplinato pubblico, in fin dei conti, non consente nessuna riflessione sui personaggi e sulla vicenda. E' teatralità svolta secondo la sua direttiva più superficiale. Può non annoiare, ma quando ti accorgi che è tutto uguale la noia arriva lo stesso. Ho trovato un guizzo solo nella festa a casa di Flora Bervoix e nella partita a carte: lì, la totale mancanza degli usuali rallentamenti alle espansioni del soprano è molto efficace. Ma per dirne un'altra, il Brindisi del Primo Atto è asettico e indifferente. Un po' tutto l'Ultimo Atto soffre poi della monolitica impostazione toscaniniana, particolarmente cinica al "Parigi o Cara", ove è bandita qualunque affettuosità. Ci sono poi alcune scelte foniche che destano preoccupazione: la frase degli archi che introduce la prima comparsa di Germont ha toni e sonorità da colonna sonora di un prodotto horror della quasi coeva Hammer Film. Poi c'è il rapporto col canto: scarso per non dir nullo, si concretizza in parte solo con la protagonista, che pure è un'esecutrice di cui faccio volentieri a meno. Era la stessa cosa avvenuta con Kleiber: anche lui aveva le sue idiosincrasie, ma nel suo caso erano snobistiche, e Renato Bruson alla Scala ebbe modo di capirne qualcosa...

Licia Albanese è amatissima negli Stati Uniti (di cui fu cittadina onoraria) e anche da qualche sparuto loggionista sopravvissuto. Le riconosco un certo dinamismo nell'esecuzione dell'Allegro brillante "Sempre libera", in cui è comunque a disagio negli acuti, raggiunti e subito lasciati con consumata furbizia scenica. Nel resto, la trovo una Violetta di mezzi limitati e volgarotta nell'espressione, che spesso e volentieri singhiozza e piange proprio (la prima volta nel Duetto con Germont). La voce è di timbro bruttino, sbiancata, tendenzialmente appiattita da un'emissione tragicamente vecchio stile, di quelle che si usavano tra le cantanti negli anni Trenta. L'interprete, dicevo, è sostanzialmente verista, querula e troppo triviale per consentire all'ascoltatore empatia e immedesimazione. Viene da dare ragione a papà Germont, che vede suo figlio perdere la testa per una bisbetica inacidita che sembra provenire da postriboli d'infima classe.

Jan Peerce è un tenore corretto, col quale certa critica, a causa del sodalizio con Toscanini, si profuse in veri e propri esercizi di minimizzazione, se non di reticenza. La pronuncia è lambiccata e americanizzante (cosa che qui vale per tutti, Albanese esclusa), ma la cosa non è mai stata fatta notare, mentre veniva rimproverata a suo cognato, il molto più emozionante Richard Tucker. La tecnica vocale e il timbro non suscitano particolari lusinghe, mentre l'interprete è genericissimo, propenso solo a un moderato e superficiale slancio che rende ogni frase identica all'altra, con cronica mancanza d'affetto e galanteria, ma non per questo con il giusto piglio nella scena delle carte. Dice poco o niente. Per Celletti, il grigiore di questa prestazione è da imputarsi al rigorismo toscaniniano, ma personalmente non ne sono tanto convinto. Mi è venuto in mente, una volta di più, il corrivo Domingo dell'edizione Kleiber. Se non altro Peerce non deve fare un falso Do acuto alla fine della cabaletta, perché la cabaletta proprio non c'è...

Per chi conosca le sue incisioni degli anni Sessanta, il giovane Robert Merrill è sorprendente: più tonda e omogenea la voce, più agevole e leggera l'emissione, più curata la pronuncia, più attento l'interprete. Il Duetto con Violetta è cantato con espressione onesta e sommessa, da vera scena di conversazione. Toscanini, qui come nel "Di Provenza", tende a trascurare i segni d'espressione, ma il Germont di Merrill crea un personaggio nobile e signorile, credibile e senz'altro superiore a quello cantato con la Sutherland.

Comprimari di bassissimo profilo, con l'assurdo di un'Annina che biascica in ostrogoto. Il solo Gastone di John Garris, tenore che nel 1949 sarebbe stato assassinato (!) a soli 36 anni, è di buon conio. Gli altri sono tremendi.

@Pinkerton @Majaniello

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23 ore fa, Wittelsbach dice:

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Incredibile come due delle Traviate più controverse della storia del disco, questa e quella di Kleiber, abbiano a mio modo di vedere gli stessi punti di contatto: l'essere appunto controverse (di consenso critico nient'affatto plebiscitario), l'avere soprano e tenore almeno in parte deficitari accanto a baritoni che se la cavano viceversa bene, e una condotta orchestrale che presta il fianco a molte perplessità.

Io non amo né l'una né l'altra, ma riconosco che a quella di Kleiber, pure menomata da un atteggiamento verso la partitura degno di vent'anni prima in materia di tagli, è da attribuire una varietà ritmica che invece Arturo Toscanini rifiuta del tutto. Dicono che Traviata sia il disco di Toscanini più bersagliato dai critici, anche anglosassoni. Beh, posso capire perché. Toscanini è ossessivo, ai limiti del metronomico e anche oltre. Non puoi dirigere Traviata senza un minimo di sprezzatura ritmica e dinamica, altrimenti ottieni solo una corsa a perdifiato che corre e corre senza sapere dove. Questo collage di recite in forma di concerto di fronte a un disciplinato pubblico, in fin dei conti, non consente nessuna riflessione sui personaggi e sulla vicenda. E' teatralità svolta secondo la sua direttiva più superficiale. Può non annoiare, ma quando ti accorgi che è tutto uguale la noia arriva lo stesso. Ho trovato un guizzo solo nella festa a casa di Flora Bervoix e nella partita a carte: lì, la totale mancanza degli usuali rallentamenti alle espansioni del soprano è molto efficace. Ma per dirne un'altra, il Brindisi del Primo Atto è asettico e indifferente. Un po' tutto l'Ultimo Atto soffre poi della monolitica impostazione toscaniniana, particolarmente cinica al "Parigi o Cara", ove è bandita qualunque affettuosità. Ci sono poi alcune scelte foniche che destano preoccupazione: la frase degli archi che introduce la prima comparsa di Germont ha toni e sonorità da colonna sonora di un prodotto horror della quasi coeva Hammer Film. Poi c'è il rapporto col canto: scarso per non dir nullo, si concretizza in parte solo con la protagonista, che pure è un'esecutrice di cui faccio volentieri a meno. Era la stessa cosa avvenuta con Kleiber: anche lui aveva le sue idiosincrasie, ma nel suo caso erano snobistiche, e Renato Bruson alla Scala ebbe modo di capirne qualcosa...

Licia Albanese è amatissima negli Stati Uniti (di cui fu cittadina onoraria) e anche da qualche sparuto loggionista sopravvissuto. Le riconosco un certo dinamismo nell'esecuzione dell'Allegro brillante "Sempre libera", in cui è comunque a disagio negli acuti, raggiunti e subito lasciati con consumata furbizia scenica. Nel resto, la trovo una Violetta di mezzi limitati e volgarotta nell'espressione, che spesso e volentieri singhiozza e piange proprio (la prima volta nel Duetto con Germont). La voce è di timbro bruttino, sbiancata, tendenzialmente appiattita da un'emissione tragicamente vecchio stile, di quelle che si usavano tra le cantanti negli anni Trenta. L'interprete, dicevo, è sostanzialmente verista, querula e troppo triviale per consentire all'ascoltatore empatia e immedesimazione. Viene da dare ragione a papà Germont, che vede suo figlio perdere la testa per una bisbetica inacidita che sembra provenire da postriboli d'infima classe.

Jan Peerce è un tenore corretto, col quale certa critica, a causa del sodalizio con Toscanini, si profuse in veri e propri esercizi di minimizzazione, se non di reticenza. La pronuncia è lambiccata e americanizzante (cosa che qui vale per tutti, Albanese esclusa), ma la cosa non è mai stata fatta notare, mentre veniva rimproverata a suo cognato, il molto più emozionante Richard Tucker. La tecnica vocale e il timbro non suscitano particolari lusinghe, mentre l'interprete è genericissimo, propenso solo a un moderato e superficiale slancio che rende ogni frase identica all'altra, con cronica mancanza d'affetto e galanteria, ma non per questo con il giusto piglio nella scena delle carte. Dice poco o niente. Per Celletti, il grigiore di questa prestazione è da imputarsi al rigorismo toscaniniano, ma personalmente non ne sono tanto convinto. Mi è venuto in mente, una volta di più, il corrivo Domingo dell'edizione Kleiber. Se non altro Peerce non deve fare un falso Do acuto alla fine della cabaletta, perché la cabaletta proprio non c'è...

Per chi conosca le sue incisioni degli anni Sessanta, il giovane Robert Merrill è sorprendente: più tonda e omogenea la voce, più agevole e leggera l'emissione, più curata la pronuncia, più attento l'interprete. Il Duetto con Violetta è cantato con espressione onesta e sommessa, da vera scena di conversazione. Toscanini, qui come nel "Di Provenza", tende a trascurare i segni d'espressione, ma il Germont di Merrill crea un personaggio nobile e signorile, credibile e senz'altro superiore a quello cantato con la Sutherland.

Comprimari di bassissimo profilo, con l'assurdo di un'Annina che biascica in ostrogoto. Il solo Gastone di John Garris, tenore che nel 1949 sarebbe stato assassinato (!) a soli 36 anni, è di buon conio. Gli altri sono tremendi.

@Pinkerton @Majaniello

Condivido la tua nota, Wittel, per quanto riguarda i cantanti.

La Albanese, che con Toscanini se l'era cavata come Mimì, qui, in un ruolo più impegnativo, è da censurare. Peerce paga lo scotto di un timbro infelice ma, come tu noti, è anche un'interprete superficiale. Sopra le aspettative Merril.

Riguardo a Toscanini invece io vedo la sua conduzione serrata e concitata, per quanto opinabile, come una scelta interpretativa. La sua visione di Traviata è tragica, dall'inizio alla fine, e predilige la drammaticità al sentimentalismo. Se a questo si aggiungono una cura assidua dei dettagli strumentali, una tensione drammatica vigorosissima e una precisione ritmica leggendaria, gli si può anche perdonare la dinamica a tratti sommaria e l'agogica quasi sempre a senso unico.

Di questa incisione ci restano anche alcuni momenti delle prove. Sentirlo istruire l'orchestra sul coro delle zingarelle è illuminante:

 

 

 

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Non conosco questa Traviata, seppur famosa, ma quando leggo Peerce-Albanese cambio canale. Il primo mai sopportato e trovo proprio che abbia una brutta voce, senza possedere altri talenti intepretativi degni di nota (tipo un Vickers per capirci); la seconda è una cantante molto manierata, che fa dei personaggi una serie di bozzetti demodé. Merrill, invece, era una grande voce. Alterno l'interprete, spesso un pò monocorde.

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@Wittelsbach le tue considerazioni su questa Traviata sono molto interessanti. Ho atteso di avere un po' di tempo perchè mi pare che si possa approfondire il tema Toscanini più nel dettaglio. Ti dico come la vedo io.

Partiamo dal canto: i protagonisti sono davvero dei cani! non è un dettaglio a mio avviso, perchè una lettura direttoriale così estrema e ardita, con tutte le sue pecche, ha bisogno di fuoriclasse per sperare di funzionare. Sono fresco da riascolto della Sonnambula di Bernstein, beh se non ci fosse stata la Callas a reggere quei cantabili scanditi così larghi, o quelle strette a rotta di collo, non so che schifezza sarebbe venuta fuori. E arrivo al punto.

Toscanini mi pare che introduca l'idea che è il direttore (e quindi "la musica", nel senso del tessuto strumentale) a imporre, o dovrei dire a trovare, il tempo drammatico, e non il cantante (quindi "la melodia"). Qualcuno in altri forum ci vedeva una wagnerizzazione di Verdi, non credo tanto a questo, credo invece che Toscanini sia il padre di quel mantra che Muti va ripetendo da decenni: l'argine allo strapotere del canto, inteso come cattiva tradizione (allargando, corone ecc). E' un po' il vizio di tutti i direttori toscaniniani quello di non "respirare" assieme al cantante, ma di farlo respirare secondo un metro assoluto, dettato dalla musica. Ovviamente a volte esagerano, e capita allo stesso Toscanini, e ciò si nota ancor più nei cantabili, dove è indubbiamente il canto ad essere al centro, per volere del compositore intendo. Prendiamo l'ultimo atto del Rigoletto: la musica di connessione, a partire dall'apertura fino alla grandiosa tempesta, è realizzata in maniera impressionante, seppur con grande economia di idee. Nei cantabili, il quartetto su tutti, tutto suona sempre un po' meccanico. A suffragio di questa mia impressione dirò che il tardo Verdi (Aida, Otello, Falstaff) veniva molto meglio al tardo Toscanini (perchè, non l'abbiamo detto, parliamo di un direttore ottantenne, che aveva un po' sclerotizzato il suo stile), perchè era Verdi ad essersi spostato su uno stile più "francese", dove musica e melodia erano maggiormente fuse. 

C'è poi un altro indizio che conferma questa mia idea ed aggiunge un altro elemento: il famoso aneddoto del litigio con Ravel. Per chi non lo sapesse, anche se è molto noto, Ravel gradì poco l'interpretazione intransigente e chiassosa di Toscanini; Toscanini, arrogante come lo conosciamo, arrivò a dire che la sua interpretazione era più "moderna" di quella dell'autore stesso, in un certo senso più "fedele" al testo :D in altre parole stava rimproverando a Ravel di seguire, da interprete, la tradizione secondo cui il piano va più largo del forte, e quindi di piegarsi in un certo senso ai dettami del romanticismo. C'è quindi in Toscanini anche quest'elemento di "modernismo" (vero o presunto) applicato al repertorio ottocentesco che doveva animarlo profondamente, e che era sicuramente innovativo nella sua epoca, per quanto oggi ci sembri estremo al contrario. 

Quanto al fraseggio e al suono. E' vero, con la vecchiaia Toscanini diventò sempre più aspro, brusco e poco accurato nel fraseggio, per me a volte fastidioso. La sua analisi sembra concentrarsi sulla chiarezza espositiva, e sulla temperatura emotiva (che passa anche per la concitazione del tempo), poco sul resto. Si possono sentire i preludi di Traviata registrati nel '29 e poi quelli del '46 per fare un confronto. Ancor più istruttivo il confronto sulle sinfonie di Beethoven, incise negli anni '30 e poi negli anni '50. Insomma, anche lui con l'età esagerò i suoi vizi come succede un po' a tutti, col risultato di performances molto alterne, con momenti illuminanti e altri piuttosto scadenti. Poi Toscanini non è mai stato sentimentale, non credo avesse per indole la capacità di suscitare con la musica sentimenti di tenerezza o fragilità, penso fosse un limite psicologico il suo, prima che interpretativo, in Toscanini in genere si apprezza proprio questa sua intensità sobria priva di sentimentalismi, probabilmente in alcuni passi di Traviata (quelli che vengono bene alla coppia Kleiber-Cotrubas non a caso) sono richieste qualità estranee al direttore.

Conclusione, sono in sostanza d'accordo con te sul fatto che questa Traviata sia un'occasione mancata e che alcuni punti siano buttati via, tuttavia quando l'operazione Toscanini funziona il risultato (limitandosi all'orchestra) è rivelatorio, e questo accade spesso nei numeri di connessione, o nella gestione di certi dettagli drammatici (a memoria, ricordo un bellissimo Non sapete quale affetto). Atteso che mi sarebbe piaciuto più sentire Toscanini in Macbeth, Ernani o Trovatore, secondo me titoli a lui più congeniali, sarebbe stato bello ascoltare una Traviata degli anni '20, coi cantanti giusti, ci sarebbero state grandi sorprese. 

PS: nel frattempo @Pinkerton ha detto più o meno le stesse cose in quattro righe :D 

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Avete piazzato tutti dei commentoni, poco da dire.
La cosa della wagnerizzazione di Verdi è una cosa che qualcuno ha detto, ma che ha scarso senso (e direi che lo pensi anche tu, @Majaniello ) : quello di Toscanini è purissimo Verdi, altro che Wagner.
Senza andare necessariamente alle opere tarde, secondo me la peculiare visione toscaniniana (perché è evidente che sia la sua scelta) si adatta molto meglio, tanto per dire, al Ballo in Maschera che sto sentendo in questo momento: ci trovo più varietà ed elasticità ritmica, oltre alla carica propulsiva, e i momenti più discutibili secondo me sono pochi. Il Ballo condotto così ha più senso di una Traviata diretta nel medesimo modo secondo me, voglio dire. I cantanti cani della Traviata... Una divertente metafora, giusta a metà, ma non sbagliata.
Parlando del Ballo, entra in campo la sottovalutata Herva Nelli, che avrà qualche difetto ma se la cava in modo abbastanza egregio in una delle parti più carogne di tutto Verdi... Ne scriverò, quando avrò finito.

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Sentendo questa registrazione del Ballo del 1954, ultima incisione operistica completa del Maestro, un mio antico dubbio ha trovato risoluzione: ecco dove Gianandrea Gavazzeni, nella bruttina versione DG del 1960, ha copiato il grattare degli ostinati degli archi in corrispondenza di "O qual soave brivido". Da Toscanini. Lui fa lo stesso, anzi di più. L'effetto non posso dire che sia bello.
A parte questa parentesi personale, posso dire che l'atteggiamento di dittatura ritmica che vediamo qui si adatta al Ballo molto più che a Traviata. Oltretutto, in molti altri per quest'opera seguono lo stesso approccio, da Leinsdorf a Muti. Gli stacchi ritmici dell'anziano direttore conducono non di rado a esiti travolgenti. Posso citare la bellissima riuscita del Terzetto dei "Passi spietati", ma conviene anche menzionare un po' tutta la scena della congiura, o la cabaletta che conclude il Primo Quadro. Dal canto loro, gli accordi che annunciano la magione di Ulrica sono secchi e atmosferici. In genere, l'aspetto politico dell'opera è ben sviscerato. Piuttosto carente è semmai l'elemento sentimentale e patetico: il Duetto tenore-soprano, anche a prescindere da quel momento a parer mio rozzissimo, è gelido. La mazurca della scena del ballo è oggettiva e ghiacciata. Perfino la morte di Riccardo pare un mero trafiletto di poche righe nelle cronache locali. Tuttavia, complessivamente il clima è più "giusto", a mio gusto, rispetto all'epopea di Violetta Valéry.

La protagonista che abbiamo qui è la rispettabile Herva Nelli, che era italiana malgrado il nome ingannevole e il trasferimento in Usa in giovane età. Si tratta di un soprano con voce né bellissima né strapotente. Il settore acuto, in particolare, denota manchevolezze di proiezione e di volume. Tuttavia, siamo al cospetto di un'Amelia persuasiva, empatica, di buon pathos nel "Morrò, ma prima in grazia", di commossa vulnerabilità. Una prestazione professionale, surclassata vocalmente da altre (Price Leontyne, Price Margareth, Nilsson, Antonietta Stella - forse il suo ruolo verdiano meglio riuscito -, anche la criticata Callas) ma credibile e viva.

Jan Peerce è nuovamente il professionista solido e quadrato che conosciamo. Ma anche qui, abbiamo grande diversità con suo cognato: Richard Tucker, nei panni di Riccardo (ci sono varie testimonianze dal vivo), aveva lieviti segreti che qui non è dato di scorgere. La voce non è nulla di speciale, pur non facendo sentire cose davvero terribili: pare di essere di fronte al Riccardo di Domingo, altro cantante intelligente ma in definitiva estraneo alla parte. Fin dalla Cavatina introduttiva, emerge una foga alquanto superficiale. L'umorismo è a grado zero, e questo si avverte crudamente nel micidiale "E' scherzo od è follia", in cui le risate sono talmente forzate e innaturali da sembrare colpi di tosse. Sul patetico poi è debole e scarso di abbandono, anche se qui Toscanini certo non aiuta. La Barcarola è musicalmente accurata, ma povera per non dir priva di leggerezza. E l'aria dell'ultimo atto è sbrigativa, conclusa poi da un "Si riverderti Amelia" di squillo non proprio adamantino. Corretto ma grezzo.

Piuttosto grezzo anche Robert Merrill, anche se con lui scompare ogni estraneità: il personaggio lo conosceva benissimo, e vocalmente era perfetto per le sue misure. Merrill qui è più rifinito rispetto alla successiva incisione con Leinsdorf, si butta meno di peso sugli acuti, è meno pesante di emissione e fa valere una grinta notevole, malgrado una dizione non ineccepibile. Resta sempre qualcosa di volgarotto nel suo canto, anche se l'effetto teatrale è sempre raggiunto, soprattutto alla scena della congiura. Il punto critico, anche stavolta, è la sua "Eri tu", in cui manca di abbandono e di morbidezza, rendendo oltretutto il legato abbastanza impuro e non riuscendo a cantare piano.

Tra gli altri, mi è piaciuta la voce pur disuguale ma personalissima di Claramae Turner, dai gravi ampi e non troppo pompati, e soprattutto capace di accentare Ulrica con persuasività.
L'Oscar di Virginia Haskins, hanno detto, non sarebbe una soubrette. Secondo me lo è: non una soubrette-pupazzo, ma una soubrette elegiaca, poco frizzante anche se precisa nel canto. Sembra anche un po' fioca, ma non è per nulla sgradevole, anche se un paragone con la Gruberova sarebbe improponibile.
Nicola Moscona e Norman Scott "fanno" Samuel e Tom senza demeriti né lodi particolari, mentre mi è piaciuto molto il Silvano baldanzoso di George Cehanovksy, quasi 3mila recite al Met e marito di Elisabeth Rethberg.
Morale: forse non benissimo, ma bene. Il "benissimo", a mio modo di vedere, arriverà con l'Aida, che sto proprio ora ascoltando.

@Ives @Majaniello @Pinkerton

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16 ore fa, Wittelsbach dice:

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Sentendo questa registrazione del Ballo del 1954, ultima incisione operistica completa del Maestro, un mio antico dubbio ha trovato risoluzione: ecco dove Gianandrea Gavazzeni, nella bruttina versione DG del 1960, ha copiato il grattare degli ostinati degli archi in corrispondenza di "O qual soave brivido". Da Toscanini. Lui fa lo stesso, anzi di più. L'effetto non posso dire che sia bello.
A parte questa parentesi personale, posso dire che l'atteggiamento di dittatura ritmica che vediamo qui si adatta al Ballo molto più che a Traviata. Oltretutto, in molti altri per quest'opera seguono lo stesso approccio, da Leinsdorf a Muti. Gli stacchi ritmici dell'anziano direttore conducono non di rado a esiti travolgenti. Posso citare la bellissima riuscita del Terzetto dei "Passi spietati", ma conviene anche menzionare un po' tutta la scena della congiura, o la cabaletta che conclude il Primo Quadro. Dal canto loro, gli accordi che annunciano la magione di Ulrica sono secchi e atmosferici. In genere, l'aspetto politico dell'opera è ben sviscerato. Piuttosto carente è semmai l'elemento sentimentale e patetico: il Duetto tenore-soprano, anche a prescindere da quel momento a parer mio rozzissimo, è gelido. La mazurca della scena del ballo è oggettiva e ghiacciata. Perfino la morte di Riccardo pare un mero trafiletto di poche righe nelle cronache locali. Tuttavia, complessivamente il clima è più "giusto", a mio gusto, rispetto all'epopea di Violetta Valéry.

La protagonista che abbiamo qui è la rispettabile Herva Nelli, che era italiana malgrado il nome ingannevole e il trasferimento in Usa in giovane età. Si tratta di un soprano con voce né bellissima né strapotente. Il settore acuto, in particolare, denota manchevolezze di proiezione e di volume. Tuttavia, siamo al cospetto di un'Amelia persuasiva, empatica, di buon pathos nel "Morrò, ma prima in grazia", di commossa vulnerabilità. Una prestazione professionale, surclassata vocalmente da altre (Price Leontyne, Price Margareth, Nilsson, Antonietta Stella - forse il suo ruolo verdiano meglio riuscito -, anche la criticata Callas) ma credibile e viva.

Jan Peerce è nuovamente il professionista solido e quadrato che conosciamo. Ma anche qui, abbiamo grande diversità con suo cognato: Richard Tucker, nei panni di Riccardo (ci sono varie testimonianze dal vivo), aveva lieviti segreti che qui non è dato di scorgere. La voce non è nulla di speciale, pur non facendo sentire cose davvero terribili: pare di essere di fronte al Riccardo di Domingo, altro cantante intelligente ma in definitiva estraneo alla parte. Fin dalla Cavatina introduttiva, emerge una foga alquanto superficiale. L'umorismo è a grado zero, e questo si avverte crudamente nel micidiale "E' scherzo od è follia", in cui le risate sono talmente forzate e innaturali da sembrare colpi di tosse. Sul patetico poi è debole e scarso di abbandono, anche se qui Toscanini certo non aiuta. La Barcarola è musicalmente accurata, ma povera per non dir priva di leggerezza. E l'aria dell'ultimo atto è sbrigativa, conclusa poi da un "Si riverderti Amelia" di squillo non proprio adamantino. Corretto ma grezzo.

Piuttosto grezzo anche Robert Merrill, anche se con lui scompare ogni estraneità: il personaggio lo conosceva benissimo, e vocalmente era perfetto per le sue misure. Merrill qui è più rifinito rispetto alla successiva incisione con Leinsdorf, si butta meno di peso sugli acuti, è meno pesante di emissione e fa valere una grinta notevole, malgrado una dizione non ineccepibile. Resta sempre qualcosa di volgarotto nel suo canto, anche se l'effetto teatrale è sempre raggiunto, soprattutto alla scena della congiura. Il punto critico, anche stavolta, è la sua "Eri tu", in cui manca di abbandono e di morbidezza, rendendo oltretutto il legato abbastanza impuro e non riuscendo a cantare piano.

Tra gli altri, mi è piaciuta la voce pur disuguale ma personalissima di Claramae Turner, dai gravi ampi e non troppo pompati, e soprattutto capace di accentare Ulrica con persuasività.
L'Oscar di Virginia Haskins, hanno detto, non sarebbe una soubrette. Secondo me lo è: non una soubrette-pupazzo, ma una soubrette elegiaca, poco frizzante anche se precisa nel canto. Sembra anche un po' fioca, ma non è per nulla sgradevole, anche se un paragone con la Gruberova sarebbe improponibile.
Nicola Moscona e Norman Scott "fanno" Samuel e Tom senza demeriti né lodi particolari, mentre mi è piaciuto molto il Silvano baldanzoso di George Cehanovksy, quasi 3mila recite al Met e marito di Elisabeth Rethberg.
Morale: forse non benissimo, ma bene. Il "benissimo", a mio modo di vedere, arriverà con l'Aida, che sto proprio ora ascoltando.

@Ives @Majaniello @Pinkerton

Vorrei tornare, Wittel, sul grande duetto tenore-soprano del secondo Atto. Inizia in "Allegro agitato" ( "Teco io sto") per poi passare ad un "Allegro un poco sostenuto", più modulato nella prima parte " ("Non sai tu che se l'anima mia") e più incalzante e scandito nella seconda ( "M'ami, M'ami! Oh sia distrutto il rimorso"). A me pare che l'esecuzione della prima e dell'ultima parte siano da antologia, per l'alta tensione drammatica e la straordinaria coesione fra orchestra e cantanti. Nella parte centrale un po' più di attenzione ai segni d'espressione e alla dinamica, non avrebbero guastato.

 

 

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Grazie, questa la conosco, anche perchè adoro il Ballo verdiano e ho sentito un pò tutte le registrazioni ufficiali. Sostanzialmente apprezzo molto, anche se in quest'opera i miei riferimenti sono le due di Solti e quella di Leinsdorf (ma solo per i cantanti). Toscanini è accurato, nitido e meno "rigido" che in altri dischi operistici, fa dell'ottimo teatro e già è tanto, ma rimane sempre col freno a mano tirato in termini di espansività e fluidità del discorso drammatico. Però, trova nella Nelli (checchè ne dicano certi melomani) un'interprete vocalmente sensibile e tecnicamente molto solida. Peerce è meglio del solito, forse tenuto a freno dal Maestro: il timbro è usuale e non mi piace (Bergonzi, Pavarotti il meglio della discografia), ma fraseggia ottimamente e ha gran gusto. Merrill è robusto come al solito, forse carente di fantasia e morbidezza ma autorevole e solido, in un ruolo che conosceva alla perfezione. Non ho grandi ricordi delle parti minori, che poi minori non sono, però Oscar mi sembrava dipinto come carta da parati, come spesso accadeva all'epoca.

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11 ore fa, Ives dice:

Però, trova nella Nelli (checchè ne dicano certi melomani) un'interprete vocalmente sensibile e tecnicamente molto solida.

Alla Nelli, Ives, va riconosciuta soprattutto la capacità di far fronte con successo ai ritmi serrati e concitati di Toscanini. Per altro, come tu rilevi, sono ingiuste anche certe critiche che tendono a liquidarla come una cantante dalla tecnica sommaria e un'interprete piuttosto inespressiva. Ascoltandola con attenzione si nota sempre un buon appoggio diaframmatico e, come interprete, sono svariati i momenti in cui risulta coinvolta ed espressiva. Il suo limite maggiore se mai, stava in una certa rigidità del suono, tendenzialmente fisso e carente di espansione, problema questo che si evidenziava negli acuti estremi e scoperti, come appare nella chiusa dell'Andante "Ma dall'arido stelo divulsa", segnatamente a 3:39 e a 4:30, dove i suoni risultano duri e al limite del grido:

Per confronto ecco l'esecuzione senza dubbio eccellente di Margaret Price:

 

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Ecco, non è Margaret Price, ma chi lo è? Non è neanche la Nilsson o l'omonima L. Price, cantanti senza dubbio superiori, eppure sfoggia un canto assolutamente ortodosso e sostanzialmente solido. L'interprete va di pari passo, con sprazzi di fraseggio convincente e appassionato.

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On 19/4/2023 at 17:09, Wittelsbach dice:

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Piuttosto grezzo anche Robert Merrill, anche se con lui scompare ogni estraneità: il personaggio lo conosceva benissimo, e vocalmente era perfetto per le sue misure. Merrill qui è più rifinito rispetto alla successiva incisione con Leinsdorf, si butta meno di peso sugli acuti, è meno pesante di emissione e fa valere una grinta notevole, malgrado una dizione non ineccepibile. Resta sempre qualcosa di volgarotto nel suo canto, anche se l'effetto teatrale è sempre raggiunto, soprattutto alla scena della congiura. Il punto critico, anche stavolta, è la sua "Eri tu", in cui manca di abbandono e di morbidezza, rendendo oltretutto il legato abbastanza impuro e non riuscendo a cantare piano.

@Ives @Majaniello @Pinkerton

Ridurre il personaggio di Renato a una sorta di "vilain", comunque Wittel, è uno sbaglio. Renato è un nobile, consigliere fidato e amico del Conte,( o Re che dir si voglia). Il baritono che lo interpreta deve fare trasparire questa nobiltà e non limitarsi a sottolinearne i momenti più temperamentali.

Fin dal primo Atto, nel suo a solo, l'Andante "Alla vita che t'arride", che è un consiglio da amico,da dire in confidenza, quasi sottovoce (perché qualche cortigiano malintenzionato non senta),il baritono che canta Renato avrebbe modo di approfondire la psicologia del personaggio. Merril è abbastanza espressivo ma riduce tutto a un "mezzoforte" piuttosto monotono e in definitiva fuori luogo in un contesto così affollato.

Nel modo giusto invece, variando opportunamente la dinamica, canta questo baritono dell'anteguerra, che tu sicuramente conoscerai:

 

 

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Come sempre egregi. I momenti procellosi del duetto, sì, sono belli. Ma in genere quando l'atmosfera si movimenta Toscanini è trascinante.

La faccenda del Renato-villain è la più spinosa. In ogni sua incarnazione (conosco anche un live con Mitropoulos) Merril tende a incattivirlo sempre un po', dandogli qualche tratto di Amonasro o addirittura Barnaba.

Voglio metter qui una "Eri tu" di un baritono che mi ha sempre appassionato: Carmelo Maugeri.
Lui, Giovanni Inghilleri e Luigi Montesanto erano una sorta di Santissima Trinità della corda baritonale sicula (e non dimentico l'immenso Augusto Beuf). Nella fattispecie, Maugeri cantò sino agli anni Cinquanta, spostandosi sui ruoli buffi. Era un grande, ma non considerato una superstar.

 

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5 ore fa, Wittelsbach dice:

 

Voglio metter qui una "Eri tu" di un baritono che mi ha sempre appassionato: Carmelo Maugeri.
Lui, Giovanni Inghilleri e Luigi Montesanto erano una sorta di Santissima Trinità della corda baritonale sicula (e non dimentico l'immenso Augusto Beuf). Nella fattispecie, Maugeri cantò sino agli anni Cinquanta, spostandosi sui ruoli buffi. Era un grande, ma non considerato una superstar.

 

 

Notevole, non c'è che dire. Un signor cantante.

Di Carmelo Maugeri, Wittel, si apprezza il perfetto controllo della colonna vocale a tutte le intensità e in tutti i registri dove la voce, sempre ben appoggiata, è pastosa, ricca di armonici, forse un poco stretta ma squillantissima in acuto. Il fraseggio però, pur ampio, è un po' strascicato e , qua e là, si avvertono lievi slittamenti di intonazione. Comunque è un cantante di alto livello. Qui, in Favorita, dà il suo meglio.

 

 

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Io quel Ballo mi sa che non l'ho mai ascoltato! o se l'ho ascoltato non lo ricordo. Ricordo bene però la trilogia Aida-Otello-Falstaff che ha momenti davvero esaltanti, nonostante parliamo di interpretazioni dell'estrema maturità. 

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Signori, giù il cappello. In questa Aida ci trovo un Toscanini affabulatore sincero, variegato, trascinante a 360 gradi. Sì, anche negli episodi più lirici e sommessi si sente una partecipazione emotiva che nelle due incisioni finora esaminate faticavo a scorgere. E questo nonostante l'enfasi del vecchio Maestro fosse anzitutto rivolta ai momenti più drammatici e turbinosi.

Se la Traviata (soprattutto) e in parte il Ballo potrei definirli invecchiati, questa Aida del 1949 non mi suscita nessuna sensazione del genere. Abbiamo una lettura coerentissima, un divenire drammaturgico costante, accompagnato da un senso di narrazione che, contrariamente a Traviata, non sta col fiato sul collo dei personaggi, ma li accompagna, e addirittura li sprona ad andare avanti seguendo il loro istinto. Tante parti potrei enumerare: il Trionfo non è tirato via e nemmeno sciatto, ma austero e non meno spettacolare di altre incisioni più "coloristiche", pur nella sua evocativa asciuttezza. L'entrata di Amonastro è scabra e teatrale. Il duetto Aida-Radames contiene uno stacco trascinante del "Sì fuggiam da queste mura", e avvita la tensione sempre di più. La gran scena del giudizio è caratterizzata da blocchi di suono monolitici, implacabili, impositivi. E' un'Aida da kolossal, ma in bianco e nero, come quelli della Hollywood dell'era del muto, di Fred Niblo e del giovane De Mille. Il coro, per inciso, risponde benissimo a simile conduzione.

Dei protagonisti, il più emozionante è probabilmente il sommo Richard Tucker. Con la Callas nel 1955 la sua prestazione sarà maggiormente chiaroscurata. Qui, il tenore yankee fa valere una baldanza giovanile che prefigura un Radames impetuoso, vitale, vigorosissimo, ben assistito da una voce ricca, morbida, squillante negli acuti. In ogni caso, non è che manchino raccoglimento e intimismo: il "Morir sì pura e bella" è un momento commovente.

Herva Nelli non ha di sicuro lo stesso immediato impatto. A giocare a suo sfavore, è una gamma acuta non perfettamente padroneggiata, che si traduce in note spesso e volentieri un po' sfocate. In genere, il calibro vocale è più da soprano lirico che spinto. Ma occorre sentire la combattività del recitativo "Ritorna vincitor!" per rendersi conto di come la cantante fiorentina, americana d'adozione, sentisse spontaneamente l'espressività della parola verdiana. Dunque, il personaggio che abbiamo qui è concreto, non propenso a risolversi in bordate solenni del registro superiore, ma capace di toccare svariate corde di una psicologia che già all'epoca cominciava ad apparire più ricca e complessa di quanto non fosse sembrato. La scena finale con Tucker è molto bella, e tutto sommato anche il "Cieli azzurri" riesce.

Chi è alquanto sbiadita è la norvegese Eva Gustafson nel ruolo di Amneris. Toscanini poteva scegliere Cloe Elmo al suo posto? Non so: la Elmo con gli acuti non aveva gran confidenza. Però la Gustafson è proprio insipida, di scarsa emozione e poco propensa a tracciare un personaggio probante. La voce poi non è proprio speciale, stride un po' nell'ottava superiore ed è gutturale in basso. Fa la figura della comprimaria o dell'intrusa.

Forse, sulla carta, Amonasro non era ruolo idoneo alla voce di Valdengo, essendo un personaggio adatto, una volta tanto, anche a baritoni verdiani di colore scuro. La voce chiarissima di Valdengo difatti ha un registro basso debolissimo, e pure quello centrale non è che sia roccioso. Ma sapeva cantare, e sapeva fraseggiare. Così, la sua comparsa è una successione di accenti persuasivi, così come la preghiera al faraone sa farsi fintamente melliflua. Eccellente il duetto con la figlia, cantato con piglio e autorità da vendere al cospetto dell'efficace e sbigottita Aida della Nelli. E' qui, per inciso, che le debolezze in basso emergono: "Là tutto udrò!" si sente proprio poco. Ma sono sciocchezze.

Norman Scott, anche se mi era piaciuto di più con Capuana, è ancora un Ramfis roccioso e granitico.
Stavolta, tutte le parti di fianco sono ottime. Bravo il Re d'Egitto del canadese Dennis Harbour. Il Messaggero del tenore parmense Virginio Assandri ha incisività e nitidezza esemplari. E la Sacerdotessa, aprite le orecchie, è la giovane Teresa Stich-Randal, 22 anni, contemporaneamente prescelta a fare la Nannetta del Falstaff.

@Pinkerton @Majaniello

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9 ore fa, Wittelsbach dice:

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Forse, sulla carta, Amonasro non era ruolo idoneo alla voce di Valdengo, essendo un personaggio adatto, una volta tanto, anche a baritoni verdiani di colore scuro. La voce chiarissima di Valdengo difatti ha un registro basso debolissimo, e pure quello centrale non è che sia roccioso. Ma sapeva cantare, e sapeva fraseggiare. Così, la sua comparsa è una successione di accenti persuasivi, così come la preghiera al faraone sa farsi fintamente melliflua. Eccellente il duetto con la figlia, cantato con piglio e autorità da vendere al cospetto dell'efficace e sbigottita Aida della Nelli. E' qui, per inciso, che le debolezze in basso emergono: "Là tutto udrò!" si sente proprio poco. Ma sono sciocchezze.

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@Pinkerton @Majaniello

Quello di Valdengo,Wittel, è un Amonasro inedito, fuori ordinanza, una volta tanto lontano dal cliché del brutale selvaggio venuto dalle foreste. Il fraseggio sapido e la dizione chiarissima ne fanno un personaggio nobile e fiero come si evidenzia dal  passaggio lirico del duetto con Aida:

 

 

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Mi sto gustando proprio ora il suo Iago nell'Otello! Aveva idee geniali, quell'uomo. Mi stupisco che da metà anni Cinquanta fosse in pratica sparito dai dischi.

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On 25/4/2023 at 23:58, Wittelsbach dice:

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Qui, il tenore yankee fa valere una baldanza giovanile che prefigura un Radames impetuoso, vitale, vigorosissimo, ben assistito da una voce ricca, morbida, squillante negli acuti.

@Pinkerton @Majaniello

Ascoltando il suo "Celeste Aida", dopo un recitativo un po' penalizzato dalla pronuncia e una prima parte con le note di passaggio leggermente aperte, Tucker centra l'emissione raccogliendo il suono sul "passaggio" ed esegue una ripresa dell'aria e una cadenza praticamente perfette: tutto il settore acuto è splendido per facilità, turgore, squillo e ci sono momenti che nessun tenore né prima né dopo di lui, ha saputo eguagliare. Ne è un esempio, a 4:31, la frase "Del mio pensiero tu sei regina", splendida per morbidezza e legato, col La bemolle acuto a 4:37, intenso e dolcissimo. 

 

 

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Che gran cantante Tucker, sempre solido e squillante, in Verdi quasi una garanzia. Il suo difetto era la pronuncia nebulosa e un timbro che non può dirsi particolarmente bello e cremoso (almeno per me). Anche l'interprete poteva diventare scolastico, se non stimolato a dovere. Ma anche in vecchiaia non deludeva, qui in un suo must con Merrill:

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  • 3 weeks later...

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Eccomi. Come si suol dire, "Scusate il ritardo!".
Sull'Otello di Toscanini ho poco o nulla da ridire, sono sincero. Si possono discutere su alcune cose, ma questo credo valga per ogni edizione dell'Otello che io abbia ascoltato (o visto dal vivo), e sono tante. Questa incisione del 1947 ci dà un saggio esemplare della drammaticità verdiana.

Cominciamo a dire che fin dall'uragano iniziale abbiamo una rappresentazione di rara potenza. La scena ci appare nella sua stupenda efficacia, senza rallentandi pleonastici. La grande scena della trireme veneziana è ugualmente spettacolare sia per la scelta del tempo che per la concezione del suono. Ma i momenti ambigui, misteriosi o carbonari, in modo particolare quelli legati alle trame malvage intessute da Iago, non vengono per nulla lasciati cadere: se in altre opere Toscanini tendeva al monolitico, qui decisamente no. E anche gli accompagnamenti dei momenti estatici o patetici non hanno aridità. In sintesi: quello che piace, in quest'Otello, è la suprema unitarietà del divenire drammatico, di cui Toscanini è un perfetto regista.

Ramon Vinay non è il mio tenore preferito. Eppure, mai si può dire sia stato altrettanto convincente sotto il duplice profilo vocale e teatrale. Se come interprete il cileno spesso si spendeva parecchio, dal punto di vista esecutivo la sua tecnica non eccelsa sovente gli tarpava le ali in ruoli troppo eseguiti ma che avrebbe dovuto evitare. Con Otello, almeno qui, siamo in regola. E' vero: nel Secondo Atto, in certi incisi di conversazione, il suo timbro inchiostrato pare più baritonale di quello di Iago. Poi, dicono che Del Monaco fosse il maniaco dell' "affondo": Del Monaco, malgrado tutto, aveva una voce che suonava infinitamente più "alta" di quella di Vinay, lui sì affondatissimo. Ma se negli anni Cinquanta Vinay diverrà pressoché bituminoso, qui non lo è ancora. E' anzi compatto, mai disuguale nei registri, in possesso di un gran buon legato. E per giunta, al netto di qualche sporadica rozzezza, ci regala un Otello non troppo monocorde, anzi capace di tratteggiare l'evolversi (anzi, l'involversi) del suo carattere con proprietà e convincimento. In particolare, "Dio mi potevi scagliar" è restituito alle ragioni del canto, senza indulgere nel declamato alla filodrammatica. E' un Otello asciuttissimo, talvolta addirittura intimizzato, decisamente ben riuscito.

Di minor nitore la prestazione di Herva Nelli. Se la cava bene con le note del ruolo di Desdemona, con stridori soltanto fuggevoli nel tremendo secondo duetto con Otello e nel concertato. Però da un punto di vista interpretativo stavolta non mi ha lasciato molto di memorabile. E' una Desdemona piuttosto distaccata e forse addirittura burbera. L'ultimo atto potrebbe avere più abbandono.

Il migliore qui però è Giuseppe Valdengo, ossia "della leggerezza e della disinvoltura". La voce chiara, tenuta leggerissima e insinuante, è prossima a quella di un tenore, e gli consente di mettere in atto una visione di Iago che è quella giusta: il tessitore d'inganni, roso dall'invidia ma lucido e intelligente. Le uniche cose che discuto? Per una voce come la sua, pressoché priva di note gravi, il "Credo" ha un paio di momenti imbarazzanti. Poi, nel corso del Sogno, l'imitazione del vaneggiare di Cassio a un certo punto gli fa escogitare una frase in falsetto, vagamente comica. Punto e basta. Il resto è maiuscolo, anche se gli acuti del Brindisi sono astutamente "finti", ossia scantonati in una frazione di secondo.

Quanto agli altri, è sempre piacevole e tondo il timbro del Ludovico di Nicola Moscona, che però sembra sempre un po' un borbottone, data la tendenza a non legare i suoni. Super-eccellenti il Cassio di Virginio Assandri e il penetrante Roderigo di Leslie Chabay, senza contare un'Emilia VIP come Nan Merriman.

@Pinkerton @Majaniello @Ives (condivido: evviva Richard Tucker!)

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23 ore fa, Wittelsbach dice:

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 Questa incisione del 1947 ci dà un saggio esemplare della drammaticità verdiana.

Cominciamo a dire che fin dall'uragano iniziale abbiamo una rappresentazione di rara potenza. La scena ci appare nella sua stupenda efficacia, senza rallentandi pleonastici. La grande scena della trireme veneziana è ugualmente spettacolare sia per la scelta del tempo che per la concezione del suono.

@Pinkerton @Majaniello @Ives

Concordo Wittel. In nessun altra incisione di Otello la scena iniziale sprigiona una simile energia.

 

 

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On 12/5/2023 at 23:12, Wittelsbach dice:

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Di minor nitore la prestazione di Herva Nelli. Se la cava bene con le note del ruolo di Desdemona, con stridori soltanto fuggevoli nel tremendo secondo duetto con Otello e nel concertato. Però da un punto di vista interpretativo stavolta non mi ha lasciato molto di memorabile. E' una Desdemona piuttosto distaccata e forse addirittura burbera. 

Io trovo invece una pagina memorabile l'Ave Maria di questo Otello.

Toscanini, in un "pianissimo" sospeso ed intenso, accompagna una Desdemona allarmata e indifesa. La Nelli canta la preghiera "a tempo", con buona tecnica e pulizia di fraseggio, nondimeno risulta particolarmente toccante.

Segnalo un momento da grande interprete: a 3:17 canta due volte "Prega per noi" rimarcando l'accento, con un'inflessione agitata, spaventata, carica di presagi, per poi subito dopo ricomporsi , a 3:24, in un "piano" purissimo.

 

 

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Ma come ha fatto a sfuggirmi? Wittelsbach il distratto... In effetti, di questi tempi sono piuttosto distratto da varie incombenze, come notate dalla presenza intermittente.

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