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Le recensioni operistiche discografiche di Wittelsbach


Wittelsbach

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@Majaniello ho letto come sempre i tuoi commenti con interesse e sono d'accordo. Intanto ti propongo, e anche a @Snorlax e @Pinkerton, un'incisione ben poco nota della seconda opera più celebre di Francesco Cilea. Forse il più francese degli operisti italiani dell'epoca: a parte la scelta dei soggetti (quest'ultimo, direttamente da Daudet), le raffinatezze armoniche e strumentali, nonché la struttura armonica e il conio delle melodie, più che al verismo italiano lo iscrivono di prepotenza all'opéra lirique stile Massenet. Già Roman Vlad in tempi non sospetti faceva notare queste concordanze, e suggeriva di prestare orecchio anche alle pagine cameristiche del musicista calabrese, che a questo punto vorrei sentire. Cilea è originale, poche storie. E quest'opera non fa eccezione: è di un lirismo inesausto, senza cadute di giusto né ammicchi a verismi d'alcun genere. Probabilmente, se odiate lo Chenier di Giordano è l'opera giusta per voi. A me, che amo lo Chenier, è parimenti piaciuta.

Questa incisione è a dir poco eccentrica, essendo stata realizzata in Ungheria. Prima, c'erano una vetusta incisione con Del Cupolo (ancora lui!) sul podio e la Pederzini protagonista, e quella di Basile con Tagliavini e la Tassinari, che devo ancora risentire bene. Ergo: questa, in quel 1991 in cui uscì, era la prima incisione in stereo, a cui ne sarebbero succedute almeno altre tre, di cui l'ultima, una CPO con Filianoti, presenta un brano espunto da Cilea e reintegrato su suggerimento dello stesso Filianoti.

Il californiano Charles Rosekrans, morto suicida nel 2009, prestava spesso la sua opera in Ungheria. Qui, la sua propensione all'acquerello e all'eleganza si addice agli impasti di una partitura che di questo si nutre precipuamente, e ricama momenti molto notevoli, oltretutto magnificamente resi dalla sontuosa orchestra di Budapest. Pure il coro rende bene. Forse si sarebbe gradita, in qualche momento, qualche scintilla in più, ma l'organismo immaginato da Cilea vien fuori alla grande.

Rosa Mamai non è parte da copertina: la mamma di Federico, tutto preso dall'amore per quella Arlesiana irraggiungibile che non appare mai in scena, non ha una scrittura vocale di particolare presa, e nemmeno di eccessiva difficoltà. Ci vuole, semmai, una brava interprete. E la cinquantenne bolzanina Elena Zilio, pur senza giganteggiare, lo è. Piace per la semplicità e l'empatia naturalissima dell'accento, che non ne fa una Carmen esagitata (perché dovrebbe poi?) ma sa toccare le note materne nonché quelle maliziose dei consigli di seduzione dati a Vivetta, la giovane pretendente trascurata da Federico. La voce è bella, anche se è alquanto disuguale nei registri, risultando piuttosto piatta al centro, per acquisire invece una certa timbratura in alto e una discreta sicurezza in basso.

Ma l'opera si ricorda di più per il protagonista maschile. E qui, abbiamo uno dei maggiori cantanti ungheresi degli anni Ottanta. Peter Kelen è un nome che i veri appassionati di opera conoscono abbastanza bene: classe 1950, è sempre stato un tenore all'antica. Lo è per come amministra una voce chiara, luminosa, anzi lucente, che ricorda quella di un Peter Dvorsky ma è sorretta da tecnica ben più scaltrita. Il suo Federico è giovanile, fresco, ricco d'ardore ma propenso ai ripiegamenti sospirosi. Il famoso (tanti anni fa) Lamento è cantato assai bene, con composto lirismo, belle gradazioni espressive e le dovute accensioni, quando occorrono. Di questo cast, è sicuramente il migliore.

Non posso dire lo stesso del baritono Barry Anderson, a lungo attivo in Italia e difatti d'ottima dizione. Baldassarre è una parte baritonale "da buono" che richiederebbe tutt'altro atteggiamento. Anderson, anche se gli acuti sono tutti più o meno duri e fibrosi, non canta esattamente male, e anzi ha una bella voce, ampia e grave, tendente al basso-baritono. Però è monolitico, duro come il legno, sia nella voce sia nell'espressione. E' un blocco di basalto, che esprime ben poco. Un vero peccato. Conviene riascoltarsi, se si ha voglia, la sua aria d'entrata "Come due tizzi accesi" fatta da un Mario Basiola o un Giuseppe Taddei. Perfino Simon Keenlyside, che non è il mio ideale, lo supera.

La scalognata Vivetta, personaggio che meriterebbe l'Oscar per la sciagura, è affidata alla svettante voce di soprano di Maria Spacagna, un po' propensa al vibrato stretto ma convincente come interprete, anche se non troppo approfondita.

Chi canta veramente malissimo è Balazs Poka nei panni di Metifio, rivale di Federico nel contendersi l'Arlesiana, lui sì personaggio davvero cattivo. Poka sgola, sforza, latra, fa di tutto, e così immiserisce una notevole voce dal timbro molto bello.

Gli altri due ruoli, tra cui il piccolo Innocente, se la cavicchiano.

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L'Arlesiana mi è proprio ignota! sarà che Adriana l'hanno cantata molte grandi dive, quindi si conosce per forza. La musica da camera di Cilea è notevole, c'è qualche assaggio su Wellesz. 

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On 5/3/2023 at 18:06, Wittelsbach dice:

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La Hmv del 1930 si trovava a fronteggiare la concorrenza della Columbia, che poco prima aveva allestito una Traviata discografica con due divi (Carlo Galeffi e Mercedes Capsir) e un discutibile mezzo divo (Lionello Cecil, alias Cecil Sherwood), sotto la bacchetta del suo direttore Molajoli. Poteva restare indietro? No di certo. Allora, ecco il tuttofare Carlo Sabajno, a dirigere una compagnia del tutto differente. Laddove c'erano le star affermate, qui si punta su nomi promettenti, sui trent'anni o meno (Ziliani solo 24, addirittura). Eppure, il risultato è molto alto.

La remasterizzazione è ad opera del compianto Nikos Velissiotis, purtroppo scomparso lo scorso luglio. E' un nome che gli appassionati di Giorgio De Chirico conosceranno certamente, ma a noi interessa soprattutto la sua competenza nel campo delle registrazioni storiche: era lui il nome dietro la casa Arkadia, che per anni ci ha dato alcuni dei migliori riversamenti mai visti di incunaboli audio antichi. E qui non si smentisce: non si insegue il desiderio malsano di abolire del tutto il fruscio dei 78 giri, ma si tiene il suono naturale e nitido, ottimo per un disco del 1930.

Sabajno dirige in modo attendibile, con tempi decisamente svelti (le facciate dei dischi dettavano legge), con ritmi solleciti, forse addirittura troppo, ma sicuramente mai noiosi. L'orchestra della Scala è brava come sempre, al pari del coro. I tagli sono i soliti di sempre (ivi compreso, purtroppo, "E' spenta!), con in più mezza aria di Germont.

La protagonista è Anna Rosza, romena, classe 1899. Costei non appare forse nelle classifiche delle stelle più celebrate, ma ha una voce molto più fonogenica di quella della Capsir, oltre che maggior polpa e dolcezza timbrica. La sua è una Violetta molto soprano lirico, con poche tentazioni spinte: linea vocale morbida, curata, dolce e modulabile con disinvoltura, non a disagio nelle agilità della famosa cabaletta, piuttosto spigliata anche sugli acuti estremi che pure non erano la sua specialità. Abbiamo numerose notazioni e sfumature nei passi patetici, e soprattutto un'espressività intensa nel duetto con Germont padre e nel "Parigi, o cara". Lievemente stridulo e querulo è solo "Alfredo, Alfredo a questo core", un poco stimbrato e piagnucoloso. Nessun manierismo d'epoca, nessuno svolazzo, nessuno scoppio veristico.

Alessandro Ziliani fa della spontaneità la sua bandiera. Il tenore bussetano era appena diventato celebre, e ci ripaga con un Alfredo che rispecchia la sua giovane età con fremiti pieni d'affetto e di sincero trasporto amoroso. Del terzetto è forse il meno tecnicamente rifinito, ma ciò non gli impedisce di superare quasi tutti gli Alfredo successivi, a parte Bergonzi, Kraus, Pavarotti e non so chi.

Luigi Borgonovo, anche lui del 1899 come la Rosza, è penalizzato da una dizione nitida ma con troppo marcato accento meneghino, che forse ci si poteva aspettare da un milanese come lui. Certo non arrivò mai alla fama del suo quasi coetaneo e conterraneo Tagliabue, che aveva voce ben più rigogliosa. Però era un baritono bene o male della stessa scuola: emizione fluente, giudiziosa, morbidissima, a parte qualche tocco di naso sulle "i". E soprattutto, sa chi è Giorgio Germont e cosa dovrebbe dire. Sicché, la scena con Violetta si giova del suo accento sfumato, nobile e non sempre e solo beffardo, ma anche empatico all'occorrenza. Ottima anche l'aria, seppure mutilata.

Gli altri sono onesti professionisti, anch'essi tendenzialmente settentrionali nell'accentare ("La convalescénza non è lontana" del Grenville del bravo Antonio Gelli è esempio macroscopico), ma funzionalissimi alla bisogna.

@Pinkerton @Majaniello @Snorlax

Ziliani attacca il "Parigi o cara" assecondando il tempo troppo rapido staccato da Sabajno: ne viene fuori una cosa metronomica e ai limiti dell'espressività, con, in sopramercato, l'acuto finale leggermente calante.

La colpa però, si badi bene, non è del cantante ma del direttore.

 

Per confronto l'attacco eccellente, per espressività, adesione ritmica e controllo dell'emissione, di Carlo Bergonzi, qui con la Caballe':

 

 

Irrinunciabile nondimeno resta la versione storica di Tito Schipa e Amelita Galli Curci:

 

 

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On 10/3/2023 at 21:14, Wittelsbach dice:

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Dopo il disinteresse supremo suscitato dalla mia precedente recensione 😁 rilancio con quest'ultimo ascolto, di una Manon Lescaut pressoché introvabile in cd, forse uno degli album più fantasmatici della collana delle riedizioni Warner delle incisioni Rai Fonit Cetra. Eppure, non meriterebbe l'oblio: è una Manon viva, sincera, piena di sentimento e di vita. Forse preferibile a quella famosa con la Callas, Callas a parte.

La qualità dell'incisione è sorprendentemente brillante per gli standard Rai dei primi anni Cinquanta: ciò è certamente un bene, visto che gli ascoltatori siamo noi, e di solito ameremmo riuscire a sentire bene la musica che mettiamo sul piatto. Questo mono torinese del 1953 è sufficientemente presente e nitido da non deludere.
Del resto, pure l'orchestra della sede Rai sabauda suona davvero molto bene, dominata da un direttore che aveva legato il suo nome soprattutto al teatro verista. Federico Del Cupolo, sessantanovenne napoletano, non era proprio famoso, ed anzi era meno quotato di bradipi della bacchetta come Gabriele Santini. La sua, è una Manon veristissima. Il che è almeno in parte un errore. Ma se l'interpretazione ha questa coerenza, anche la Manon verista diviene affascinante. La diversità si nota soprattutto al paragone con la Emi del 1957, che costituì uno dei non molti passi falsi di Tullio Serafin: laddove il celebre veneto era piuttosto chiassoso e tirato via, Del Cupolo opta invece per un suono pieno, ricco, legatissimo, espansivo al massimo. E' una scuola interpretativa che risale ai primi del Novecento, ed è tuttora affascinante. A scapitarne è sicuramente il Primo Atto, che ha qualche pesantezza di troppo pur nel colore fastoso dello strumentale. Viceversa, i momenti più drammatici ed eloquenti, come il duettone del Secondo Atto o l'intero Terzo, vibrano di energia, di dramma e di commozione, grazie anche al concorso di validi interpreti. E' una colonna sonora da film di Matarazzo, si può dire: quei film erano semplicisti, talora esagerati, ma di sicura presa sul pubblico.

Clara Petrella si incastra perfettamente in questo quadro, dandoci una Manon molto personale. Non ha il tratto della gioventù nel suo timbro da donna navigata, questo è certo. Ma altrettanto evidente è il savoir faire eminentemente teatrale che ne governa l'interpretazione. Un fraseggio spontaneo, mai affettato, di immediata forza emozionale senza dare quel senso di falso tipico di certi soprani veristi (qualcuno ha detto Olivero?) è il lievito segreto di questa Manon, che peraltro si permette di ricamare un più che ragguardevole "In quelle trine morbide". La pestifera tessitura è dominata solo con modico stridore nelle note acute più estreme, e comunque si impone come un personaggio di alta statura.

Il poco considerato tenore Vasco Campagnano è senz'altro più terra terra, ma è un Des Grieux quasi sempre apprezzabile. Qualche parallelo col più giovane Mario Del Monaco mi viene da farlo: ambedue sono a disagio con le note guizzanti del Primo Atto, mentre rendono benissimo nel Terzo. Del Monaco in ogni caso la vinceva per incisività del declamare e per bellezza timbrica, laddove Campagnano prevale per l'emissione più ortodossa e per il maggiore squillo dell'ottava alta. L'emissione, in ogni caso, pare un misto tra Corelli e Bonisolli, con in parte l'ingolatura di quest'ultimo sulle prime note di passaggio. Ma a differenza del trentino, gli acuti di Campagnano sono più spontanei e meno muscolari. Dicevo: nel Primo Atto si incontra qualche disagio, "Tra voi belle brune e bionde" è alquanto ingombrante ed elefantiaco, al pari dei passi di conversazione. "Donna non vidi mai", pur essendo un po' sommario e rozzo, figura meglio, perché la voce si getta sulle espansioni all'acuto con ricchezza di suono e sincerità d'accento, sopra la vibrante orchestra di Del Cupolo. Il duetto con Manon lo vede gagliardo e forte, e più avanti "Ah Manon, mi tradisce il tuo folle pensiero" e "No, pazzo son" sono notevoli per impatto drammatico. Oltretutto, pur senza sforzarsi più di tanto, Campagnano riesce anche a fare qualche fraseggio dolce. Non male il Quarto Atto, senonché verso la fine il tenore scoppia in singhiozzi e piagnucolii francamente comici. Nel complesso, il personaggio c'è e convince.

A dir poco bravo il Lescaut sottile e cialtronesco di Saturno Meletti, che canta con morbidezza estrema e articola con una dizione che, in un cast che in questo eccelle, è forse la migliore in assoluto. Certi fraseggi insinuanti, disincantati e quasi perfidi sono un bijoux, e fanno del fratello di Manon l'ambiguo ruffiano che dovrebbe essere.

Pier Luigi Latinucci vocalmente e timbricamente non è nulla di speciale, ma si affida anche lui a una dizione da manuale e a una sensibilità tale da fargli comporre un Geronte completamente scevro di caricature e lazzi volgari.

Tra le parti di fianco, buone, spicca il giovanissimo napoletano Tullio Pane, che con la sua fresca voce tenorile e l'innata simpatia è un Edmondo semplicemente perfetto.

@Pinkerton @Majaniello @Snorlax

Il Des Grieux di Campagnano ricorda Del Monaco nella tecnica di emissione. Nessuno dei due padroneggia le mezzevoci e, come osserva Wittel, forse gli acuti di Campagnano sono più squillanti là dove il timbro di Del Monaco è più pregiato. Del Monaco però, come interprete, appare più coinvolto e ispirato:

 

 

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On 13/3/2023 at 18:21, Wittelsbach dice:

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@Majaniello ho letto come sempre i tuoi commenti con interesse e sono d'accordo. Intanto ti propongo, e anche a @Snorlax e @Pinkerton, un'incisione ben poco nota della seconda opera più celebre di Francesco Cilea. Forse il più francese degli operisti italiani dell'epoca: a parte la scelta dei soggetti (quest'ultimo, direttamente da Daudet), le raffinatezze armoniche e strumentali, nonché la struttura armonica e il conio delle melodie, più al verismo italiano lo iscrivono di prepotenza all'opéra lirique stile Massenet. Già Roman Vlad in tempi non sospetti faceva notare queste concordanze, e suggeriva di prestare orecchio anche alle pagine cameristiche del musicista calabrese, che a questo punto vorrei sentire. Cilea è originale, poche storie. E quest'opera non fa eccezione: è di un lirismo inesausto, senza cadute di giusto né ammicchi a verismi d'alcun genere. Probabilmente, se odiate lo Chenier di Giordano è l'opera giusta per voi. A me, che amo lo Chenier, è parimenti piaciuta.

Questa incisione è a dir poco eccentrica, essendo stata realizzata in ungheria. Prima, c'erano una vetusta incisione con Del Cupolo (ancora lui!) sul podio e la Pederzini protagonista, e quella di Basile con Tagliavini e la Tassinari, che devo ancora risentire bene. Ergo: questa, in quel 1991 in cui uscì, era la prima incisione in stereo, a cui ne sarebbero succedute almeno altre tre, di cui l'ultima, una CPO con Filianoti, presenta un brano espunto da Cilea e reintegrato su suggerimento dello stesso Filianoti.

Il californiano Charles Rosekrans, morto suicida nel 2009, prestava spesso la sua opera in Ungheria. Qui, la sua propensione all'acquerello e all'eleganza si addice agli impasti di una partitura che di questo si nutre precipuamente, e ricama momenti molto notevoli, oltretutto magnificamente resi dalla sontuosa orchestra di Budapest. Pure il ocoro rende bene. Forse si sarebbe gradita, in qualche momento, qualche scintilla in più, ma l'organismo immaginato da Cilea vien fuori alla grande.

Rosa Mamai non è parte da copertina: la mamma di Federico, tutto preso dall'amore per quella Arlesiana irraggiungibile che non appare mai in scena, non ha una scrittura vocale di particolare presa, e nemmeno di eccessiva difficoltà. Ci vuole, semmai, una brava interprete. E la cinquantenne bolzanina Elena Zilio, pur senza giganteggiare, lo è. Piace per la semplicità e l'empatia naturalissima dell'accento, che non ne fa una Carmen esagitata (perché dovrebbe poi?) ma sa toccare le note materne nonché quelle maliziose dei consigli di seduzione dati a Vivetta, la giovane pretendente trascurata da Federico. La voce è bella, anche se è alquanto disuguale nei registri, risultando piuttosto piatta al centro, per acquisire invece una certa timbratura in alto e una discreta sicurezza in basso.

Ma l'opera si ricorda di più per il protagonista maschile. E qui, abbiamo uno dei maggiori cantanti ungheresi degli anni Ottanta. Peter Kelen è un nome che i veri appassionati di opera conoscono abbastanza bene: classe 1950, è sempre stato un tenore all'antica. Lo è per come amministra una voce chiara, luminosa, anzi lucente, che ricorda quella di un Peter Dvorsky ma è sorretta da tecnica ben più scaltrita. Il suo Federico è giovanile, fresco, ricco d'ardore ma propenso ai ripiegamenti sospirosi. Il famoso (tanti anni fa) Lamento è cantato assai bene, con composto lirismo, belle gradazioni espressive e le dovute accensioni, quando occorrono. Di questo cast, è sicuramente il migliore.

Non posso dire lo stesso del baritono Barry Anderson, a lungo attivo in Italia e difatti d'ottima dizione. Baldassarre è una parte baritonale "da buono" che richiederebbe tutt'altro atteggiamento. Anderson, anche se gli acuti sono tutti più o meno duri e fibrosi, non canta esattamente male, e anzi ha una bella voce, ampia e grave, tendente al basso-baritono. Però è monolitico, duro come il legno, sia nella voce sia nell'espressione. E' un blocco di basalto, che esprime ben poco. Un vero peccato. Conviene riascoltarsi, se si ha voglia, la sua aria d'entrata "Come due tizzi accesi" fatta da un Mario Basiola o un Giuseppe Taddei. Perfino Simon Keenlyside, che non è il mio ideale, lo supera.

La scalognata Vivetta, personaggio che meriterebbe l'Oscar per la sciagura, è affidata alla svettante voce di soprano di Maria Spacagna, un po' propensa al vibrato stretto ma convincente come interprete, anche se non troppo approfondita.

Chi canta veramente malissimo è Balazs Poka nei panni di Metifio, rivale di Federico nel contendersi l'Arlesiana, lui sì personaggio davvero cattivo. Poka sgola, sforza, latra, fa di tutto, e così immiserisce una notevole voce dal timbro molto bello.

Gli altri due ruoli, tra cui il piccolo Innocente, se la cavicchiano.

Peter Kelen, Wittel, nel "Lamento di Federico" esibisce una dinamica varia e appropriata ma stacca un tempo eccessivamente lento che rasenta l'inerzia. Inoltre è in difficoltà in qualche mezzavoce che risulta opaca se non soffocata. Rispetto a Dvorski poi vanta un canto più vario e sorvegliato, ma gli è inferiore come bellezza timbrica:

 

Tutto sommato in quest'aria l'esecuzione di riferimento è ancora questa:

 

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On 11/3/2023 at 19:46, Majaniello dice:

Io leggo sempre! non ho commentato perchè sei andato un po' troppo indietro nel tempo, non conosco incisioni così vecchie :D Questa è interessante, mai sentito nominare questo direttore. Dirò (ma l'avevo già detto in altre occasioni) che la Manon Lescaut EMI mi è sempre parsa poco riuscita (al netto di considerazioni tipo "avercene oggi cast così" ecc), sono tutti un po' fuori parte per ragioni diverse. Il binomio Giovane Scuola-Serafin è problematico, l'idea che negli anni mi sono fatto è che gli vengano bene i grandi tableaux (Boheme, Turandot) e meno bene le passioni violente (Manon, Tosca), del resto anche nel dittico Cavalleria-Pagliacci mi piace di più la seconda, più legata a certe sofisticherie da opera tardoromantica che al crudo verismo nel quale aspirerebbe a collocarsi. Anche la Callas, benchè canti ancora come la vergine Maria, non mi ha mai trasmesso quei lati contradditori che leggo io nel personaggio (al netto di un ultimo atto davvero grandioso). 

Della Manon Lescaut, Maja, probabilmente l'edizione più riuscita è quella diretta da Bartoletti, con la Caballe' all'apice della forma e Domingo molto convincente nel duetto del I° Atto per la trepida sensualità della sua voce calda e pastosa:

 

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4 ore fa, Pinkerton dice:

Della Manon Lescaut, Maja, probabilmente l'edizione più riuscita è quella diretta da Bartoletti, con la Caballe' all'apice della forma e Domingo molto convincente nel duetto del I° Atto per la trepida sensualità della sua voce calda e pastosa:

 

Cavolo non conosco neanche questa :( sarà perchè la Manon è un'opera di Puccini che mi piace meno di altre, conosco solo Serafin, Sinopoli e un paio di video. Ti credo sulla fiducia, anche perchè sulla carta è un'edizione di gran lusso, Bartoletti è stato un grande pucciniano (credo anche per merito della sua familiarità col '900 storico europeo, anche se io lo conosco solo nel repertorio italiano) e la Caballé aveva quel fare spontaneamente svenevole ed edonista che nei primi atti può ben funzionare. 

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On 18/3/2023 at 10:06, Ives dice:

Leggo anche io ma conosco poco e niente. Per la Manon, ho questo:

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Di questa edizione, Ives, interessante è la direzione di Levine per lo slancio e la concitazione dei momenti più appassionati. La Scotto interpreta con talento ma la voce è a disagio nel settore acuto. Domingo non è in forma come nel '73 con Bartoletti e neppure come nell'84 con Sinopoli dove è affiancato da Mirella Freni, pucciniana doc, che forse non eguaglia la Caballe' ma che comunque offre una prova di alto livello. Tenore e soprano cantano veramente bene il duetto del secondo atto:

 

 

A Maja, Ives, Snorlax e Wittel.

 

 

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13 ore fa, Pinkerton dice:

Di questa edizione, Ives, interessante è la direzione di Levine per lo slancio e la concitazione dei momenti più appassionati. La Scotto interpreta con talento ma la voce è a disagio nel settore acuto. Domingo non è in forma come nel '73 con Bartoletti e neppure come nell'84 con Sinopoli dove è affiancato da Mirella Freni, pucciniana doc, che forse non eguaglia la Caballe' ma che comunque offre una prova di alto livello. Tenore e soprano cantano veramente bene il duetto del secondo atto:

A Maja, Ives, Snorlax e Wittel.

Rilevi che ci stanno, ma trovo la Scotto sensibilissima nel secondo atto, come quando assapora la gioia di ritrovare tra le "trine morbide" della sua dorata alcova, un orecchino di diamanti a lungo cercato. E' coinvolgente e immediata nel comunicare gli stati d'animo e capace di focalizzare l'attenzione come poche altre dive in questo difficile ruolo, ma sempre restando nell'interiorità del personaggio, reso credibile anche grazie alle doti di splendida attrice. Domingo decisamente meno sottile, ma si difende anche lui in un ruolo che ben conosceva (e consideriamo pure la ripresa live). Non mi piace la regia di Menotti, parecchio datata. Levine ottimo.

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  • 2 weeks later...

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Gli anni Cinquanta ci lasciarono veramente delle grandi edizioni di Bohème: quella della Callas porta l'imprinting della grande greca e le glorie di un cast affiatatissimo; la seconda della Tebaldi, oltre alla preziosità vocale della protagonista, ha un terzetto di coprotagonisti largamente memorabile. Quatta quatta, accanto a loro si colloca questa Rai 1952 dall'ascolto veramente godibile, un'edizione in cui praticamente nessuna frase pronunciata cade nel vuoto.

Gabriele Santini finalmente scioglie la briglia: l'anno dopo a Torino registrerà per Cetra una Traviata in cui l'elemento maggiormente difettoso, a parer mio, sarà proprio la sua limacciosa condotta dell'orchestra. Niente del genere qua: sarà che forse gli piaceva l'opera (e come dargli torto?), ma Santini è mosso e pertinente, con un ritmo che non cede mai il passo, senza trasandatezze o elefantismi strumentali. Molto indovinato il colore orchestrale nelle scene movimentate degli amici; ottima la concertazione del "Gioventù mia, tu non sei morta"; indovinato l'abbandono lirico dei momenti che lo richiedono. Gli strumentisti sono ottimi. La tecnica d'incisione è decisamente superiore a quella messa in mostra dalla successiva Traviata: converrà domandarsi il perché di un sound così altalenante nell'ambito di registrazioni della stessa emittente radiofonica.

Il cast è di quelli che si ricordano.
Ferruccio Tagliavini aveva un difetto vocale: consapevole della bellezza del suo timbro, amava arrotondare oltremisura la voce nei centri, indurendo il passaggio di registro. In tal modo, gli estremi acuti non suonano forzati, ma un po' opachi e stimbrati sì. Intimorito dal Do acuto, fa staccare a Santini la "Gelida manina" mezzo tono sotto. Tolto questo, l'esecuzione di Tagliavini è più che egregia, corroborata da un'interpretazione sempre eloquente: è un Rodolfo in bilico tra slanci e ripiegamenti poetici, con molte frasi che colpiscono. La "Gelida manina", trasposizione a parte, è piena di belle notazioni espressive. Nell'ultimo atto, i sempre problematici "Mimì è una civetta" e "Mimì è tanto malata" sono risolti con un'espressione di meraviglioso equilibrio. Alla fine, accortosi della morte di Mimì, ricorre sì al parlato, ma a un parlato da vero attore. Molto bravo.

Accanto a lui, la limpida freschezza di una Rosanna Carteri ventiduenne! La Carteri, in questo ruolo, è la più coerente antecedente del modello di una delle più grandi, ossia la di poco più giovane Mirella Freni: voce di puro soprano lirico, squillante e morbidissima, al servizio di un'interprete semplice, commossa ma anche arguta, in possesso di una nitidissima dizione. Il suo duetto con Marcello, in particolare, è tra i migliori, così come l'accento trovato alla scena della morte.

Marcello è un altro dei grandi qui presenti. Una parte del genere, era cucita addosso al simpaticissimo Giuseppe Taddei, che gli tira fuori l'impossibile, pur senza perdere un milligrammo di spontaneità e di rusticità popolare. Lui e Tagliavini, per esemplificare, ci danno uno dei più bei "O Mimì, tu più non torni" che mi vengano alla memoria.

Terzo bohemien: un Cesare Siepi che fa la prova per la sua incisione Decca, mostrando pure qui i suoi tratti tipici. E così come sarà nel 1958, la sua "r" arrotata trovo sia appropriatissima al filosofeggiante "radical chic" Colline, reso comunque anche lui amabilissimo.

Schaunard è ricoperto con dinamismo da Pier Luigi Latinucci, privo di particolari preziosismi vocali ma dotato di sicuro talento recitativo. I quattro uomini insieme creano scene e scenette memorabili, in cui non si sa chi ammirare di più.

Un po' in subordine la cantante biellese Elvina Ramella, che ci dà una Musetta alquanto asprigna, con i gridolini di rito a "Qual dolore, qual bruciore!", ma senza esagerare, e soprattutto con timbro abbastanza bello anche se non ha troppa storia.

Piuttosto penalizzanti le parti di fianco, con un Armando Benzi che urla a squarciagola "Ecco i giocattoli di Parpigol!" e un Mario Zorgniotti che ci dà un Benoit all'incirca detestabile per quanto è rimbambito, e un Alcindoro solo di poco migliore.
Comunque, una Bohème davvero parigina!

@Snorlax @Pinkerton @Majaniello

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1 minuto fa, Pinkerton dice:

Concordo.

Pinkerton, ti ricordi "Il Maresciallo Rocca", la serie Rai?
Il giornalista Passigli, interpretato dal sommo Gianni Musy, ascoltava sempre la Bohème. E indovina un po'? Sentiva proprio questa edizione! L'ho riconosciuta all'ascolto. Mi pare anche giusto, essendo prodotta dalla Rai, che si sia sfruttato materiale "di casa".

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11 ore fa, Wittelsbach dice:

Il giornalista Passigli, interpretato dal sommo Gianni Musy, ascoltava sempre la Bohème. E indovina un po'? Sentiva proprio questa edizione! L'ho riconosciuta all'ascolto. Mi pare anche giusto, essendo prodotta dalla Rai, che si sia sfruttato materiale "di casa".

Io lo ricordo bene :o C'era pure un altro episodio con di mezzo la Tosca e Giancarlo Giannini.

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12 ore fa, Wittelsbach dice:

Pinkerton, ti ricordi "Il Maresciallo Rocca", la serie Rai?
Il giornalista Passigli, interpretato dal sommo Gianni Musy, ascoltava sempre la Bohème. E indovina un po'? Sentiva proprio questa edizione! L'ho riconosciuta all'ascolto. Mi pare anche giusto, essendo prodotta dalla Rai, che si sia sfruttato materiale "di casa".

Non sapevo Wittel. 

Il duetto di Taddei e Tagliavini è da antologia così come quello di Panerai e Pavarotti che cantano nell'atmosfera magica dell'orchestra di Karajan, amorosissima:

 

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"What a mess, maestro Bernstein!". Mi viene da dire questo, dopo l'ascolto di questa Bohème, registrata dal vivo lungo tre serate preparate con cura a Santa Cecilia, e pure con un certo battage di stampa. Usare l'inglese è quantomai appropriato: di italiano, in questa Bohème, non resta proprio niente.
Bernstein si era già accostato al capolavoro di Puccini alla Scala, nel 1954/55: su ebay si trova un programma di sala su cui si leggono i nomi di un cast che contemplava Poggi, Mascherini, Italo Tajo. Tuttavia, pare che la geniale bacchetta americana vagheggiasse da tempo l'allestimento dell'opera con cantanti tutti giovani, almeno nelle parti che imperativamente richiedessero tale caratteristica anagrafica. Il sogno si concretò nel 1987: Santa Cecilia, con cui collaborava fin dal 1948 e con cui realizzò dischi bellissimi come quello di Debussy con la stessa Dg, gliene diede l'opportunità, in alcune serate, in forma di concerto non scenico. Bernstein era estasiato, lodando a mille l'apporto del suo cast che definiva "magnifico". Ok, è come l'oste che dice che il suo vino è buono. Vogliamo parlarne?

Trovo, personalmente, che Bernstein fece della Bohème la stessa cosa che realizzò a Vienna col Rosenkavalier: la approcciò facendone un musical. Sbagliato? Mica tanto: la vicenda si presta. Dunque, abbiamo ritmi vivacissimi, colori sgargianti, sintassi cinematografica nella narrazione di un'orchestra che risponde magnificamente alle sollecitazioni del suo direttore. Sinceramente, trovo molto bella la pulsione teatrale di tutta la vicenda: non ho particolari momenti da ricordare, perché la narrazione è splendidamente coerente e unitaria da non far risaltare nessuna parentesi eccentrica. Il coro, poi, sa quello che fa.

Il coro, volendo sottilizzare, è l'unico personaggio davvero italiano. Occorre intendersi: quasi tutto il cast sa pronunciare la nostra lingua. Il problema è che la dizione è quella che è: non c'è attenzione alla parola, scolpitura, accento sorgivo che nasca dal cuore stesso delle frasi. Quelli che interpretano, "sovrappongono" le loro sporadiche intuizioni alla linea vocale, e restano poco spontanei, costruiti. Quelli che non interpretano, invece, sono noiosissimi. Ma non c'è familiarità con la parola scenica, neanche un po'. Giovani, ok: ma per una visione come quella di Bernstein (e non solo per la sua) sarebbe stato il caso di scegliere elementi un po' più esperti e scaltriti.

Oltretutto, a fine anni Ottanta, si vedono riproposti alcuni cliché ormai passati di cottura: per esempio, Benoit e Alcindoro vecchi babbei rincretiniti. Il quarantenne Joseph McKee, nei panni del primo, in particolare è abominevole per gli schiamazzi e le guitterie americanizzanti che escogita. Alcindoro è invece il più vecchio Gimi Beni (classe 1924), ma è solo marginalmente più contenuto. Ma davvero in America avevano questo concetto del comico pucciniano anche in anni così recenti?

Tra le parti principali, spicca la futura star Thomas Hampson, che proprio allora era diventato famoso, e fa valere la voce dei suoi anni di gioventù: timbrata, tonda, facile, tecnicamente molto raffinata. Certo, un Marcello che sa cantare, e pure benissimo. Ma col fraseggio, non ci siamo. All'epoca, Hampson non era ancora il sofisticato alchimista teatrale che sarebbe diventato, ma non per questo è spontaneo: anzi, elargisce qualche gigionatina fin dall'iniziale "Fa un freddo cane!", per poi dilagare nel litigio con Musetta. Si sente che il personaggio è costruito. Poi, ha il problema della parola: l'italiano è buono, ma la dizione non è ben distinta. Questo vale per i quattro amici al completo: nelle loro scene, si percepiscono solo le vocali intonate, e le parole sono immerse in una specie di nebbia. La poco blasonata (ma neanche tanto, a vedere il cast) registrazione di Santini al confronto in tali scene ci riporta sul pianeta giusto.

Canta non male anche Jerry Hadley, pure lui alla soglia della celebrità. Ma è proprio noioso! Canta tutto forte, tutto uguale, tutto voglioso di far vedere la sua bella voce ricca di squillo, che difatti sciala per ogni dove. Di una riproposizione dello spento Gianni Poggi, sia pure con canto assai più corretto e accattivante, sinceramente potevo anche fare a meno.

Paul Plishka è certamente il più esperto in campo, ed era già apparso in disco come Colline, ma non lascia il segno. Più che nel modo di cantare, correttissimo ma non super, la sua forza è sempre stata nell'interpretazione: che qui stranamente manca quasi del tutto. Davvero curioso.

Ma sempre meglio di Schaunard: tale James Busterud, brutta voce, emissione ingolata e aperta, sguaiato nel canto e nel fraseggio di gusto decisamente volgare.

Scadentissima la protagonista. Angelina Reaux pare un misto di Kathleen Battle e Barbara Hendricks, come dire due dei modelli di soprano meno raccomandabili. Ha una leziosità gelida nel fraseggiare, che si scuote solo in momenti francamente piagnucolosi qua e là. Come voce, poi, non ci siamo proprio. Dopo un duetto Mimì-Marcello come quello dell'accoppiata Carteri-Taddei, sentire questi gridolini sugli acuti e questi affondi al grave gutturali, postribolari e grotteschi è veramente sconcertante.

Più solida e meglio organizzata Barbara Daniels, che farà una discreta carriera. Almeno in un punto, anzi, ossia la preghiera di Musetta, questa cantante riesce espressiva perché fa scaturire l'espressione dalla stessa curva della frase, con effetto molto bello. Ma nel resto, abbiamo l'inserzione di sghignazzamenti, urletti e urlacci che sembrano appiccicati con lo scotch, tanto sembrano innaturali e forzati.

Per concludere l'opera, segnalo che nei panni di Parpignol c'è Don Bernardini, uno che con sommo sprezzo del pericolo (e del ridicolo) pochi anni dopo affrontò addirittura i Puritani: qui è sgradevolissimo.
Occasione in definitiva sprecata. E' uno di quei dischi per cui vale la pena che esista Spotify: un ascolto occasionale.

@Ives @Pinkerton @Majaniello

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Si, più o meno, concordo, fu un flop clamoroso, soprattutto per la mancanza totale di un cast vocale degno di questo nome, io salvo solo Hampson e Plishka. Ho scritto qualcosa nella discussione degli ascolti. Grazie.

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3 ore fa, Ives dice:

Si, più o meno, concordo, fu un flop clamoroso, soprattutto per la mancanza totale di un cast vocale degno di questo nome, io salvo solo Hampson e Plishka. Ho scritto qualcosa nella discussione degli ascolti. Grazie.

Ricordo, ricordo... Non avevo risposto perché personalmente non avevo nulla da aggiungere. Semmai, dico che non solo Hampson ma anche Hadley in futuro avrebbero dato prove teatralemente compiutissime, e dunque Bernstein ci aveva visto lungo.

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18 ore fa, Wittelsbach dice:

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"What a mess, maestro Bernstein!". Mi viene da dire questo, dopo l'ascolto di questa Bohème, registrata dal vivo lungo tre serate preparate con cura a Santa Cecilia, e pure con un certo battage di stampa. Usare l'inglese è quantomai appropriato: di italiano, in questa Bohème, non resta proprio niente.
Bernstein si era già accostato al capolavoro di Puccini alla Scala, nel 1954/55: su ebay si trova un programma di sala su cui si leggono i nomi di un cast che contemplava Poggi, Mascherini, Italo Tajo. Tuttavia, pare che la geniale bacchetta americana vagheggiasse da tempo l'allestimento dell'opera con cantanti tutti giovani, almeno nelle parti che imperativamente richiedessero tale caratteristica anagrafica. Il sogno si concretò nel 1987: Santa Cecilia, con cui collaborava fin dal 1948 e con cui realizzò dischi bellissimi come quello di Debussy con la stessa Dg, gliene diede l'opportunità, in alcune serate, in forma di concerto non scenico. Bernstein era estasiato, lodando a mille l'apporto del suo cast che definiva "magnifico". Ok, è come l'oste che dice che il suo vino è buono. Vogliamo parlarne?

Trovo, personalmente, che Bernstein fece della Bohème la stessa cosa che realizzò a Vienna col Rosenkavalier: la approcciò facendone un musical. Sbagliato? Mica tanto: la vicenda si presta. Dunque, abbiamo ritmi vivacissimi, colori sgargianti, sintassi cinematografica nella narrazione di un'orchestra che risponde magnificamente alle sollecitazioni del suo direttore. Sinceramente, trovo molto bella la pulsione teatrale di tutta la vicenda: non ho particolari momenti da ricordare, perché la narrazione è splendidamente coerente e unitaria da non far risaltare nessuna parentesi eccentrica. Il coro, poi, sa quello che fa.

Il coro, volendo sottilizzare, è l'unico personaggio davvero italiano. Occorre intendersi: quasi tutto il cast sa pronunciare la nostra lingua. Il problema è che la dizione è quella che è: non c'è attenzione alla parola, scolpitura, accento sorgivo che nasca dal cuore stesso delle frasi. Quelli che interpretano, "sovrappongono" le loro sporadiche intuizioni alla linea vocale, e restano poco spontanei, costruiti. Quelli che non interpretano, invece, sono noiosissimi. Ma non c'è familiarità con la parola scenica, neanche un po'. Giovani, ok: ma per una visione come quella di Bernstein (e non solo per la sua) sarebbe stato il caso di scegliere elementi un po' più esperti e scaltriti.

Oltretutto, a fine anni Ottanta, si vedono riproposti alcuni cliché ormai passati di cottura: per esempio, Benoit e Alcindoro vecchi babbei rincretiniti. Il quarantenne Jospeh McKee, nei panni del primo, in particolare è abominevole per gli schiamazzi e le guitterie americanizzanti che escogita. Alcindoro è invece il più vecchio Gimi Beni (classe 1924), ma è solo marginalmente più contenuto. Ma davvero in America avevano questo concetto del comico pucciniano anche in anni così recenti?

Tra le parti principali, spicca la futura star Thomas Hampson, che proprio allora era diventato famoso, e fa valere la voce dei suoi anni di gioventù: timbrata, tonda, facile, tecnicamente molto raffinata. Certo, un Marcello che sa cantare, e pure benissimo. Ma col fraseggio, non ci siamo. All'epoca, Hampson non era ancora il sofisticato alchimista teatrale che sarebbe diventato, ma non per questo è spontaneo: anzi, elargisce qualche gigionatina fin dall'iniziale "Fa un freddo cane!", per poi dilagare nel litigio con Musetta. Si sente che il personaggio è costruito. Poi, ha il problema della parola: l'italiano è buono, ma la dizione non è ben distinta. Questo vale per i quattro amici al completo: nelle loro scene, si percepiscono solo le vocali intonate, e le parole sono immerse in una specie di nebbia. La poco blasonata (ma neanche tanto, a vedere il cast) registrazione di Santini al confronto in tali scene ci riporta sul pianeta giusto.

Canta non male anche Jerry Hadley, pure lui alla soglia della celebrità. Ma è proprio noioso! Canta tutto forte, tutto uguale, tutto voglioso di far vedere la sua bella voce ricca di squillo, che difatti sciala per ogni dove. Di una riproposizione dello spento Gianni Poggi, sia pure con canto assai più corretto e accattivante, sinceramente potevo anche fare a meno.

Paul Plishka è certamente il più esperto in campo, ed era già apparso in disco come Colline, ma non lascia il segno. Più che nel modo di cantare, correttissimo ma non super, la sua forza è sempre stata nell'interpretazione: che qui stranamente manca quasi del tutto. Davvero curioso.

Ma sempre meglio di Schaunard: tale James Busterud, brutta voce, emissione ingolata e aperta, sguaiato nel canto e nel fraseggio di gusto decisamente volgare.

Scadentissima la protagonista. Angelina Reaux pare un misto di Kathleen Battle e Barbara Hendricks, come dire due dei modelli di soprano meno raccomandabili. Ha una leziosità gelida nel fraseggiare, che si scuote solo in momenti francamente piagnucolosi qua e là. Come voce, poi, non ci siamo proprio. Dopo un duetto Mimì-Marcello come quello dell'accoppiata Carteri-Taddei, sentire questi gridolini sugli acuti e questi affondi al grave gutturali, postribolari e grotteschi è veramente sconcertante.

Più solida e meglio organizzata Barbara Daniels, che farà una discreta carriera. Almeno in un punto, anzi, ossia la preghiera di Musetta, questa cantante riesce espressiva perché fa scaturire l'espressione dalla stessa curva della frase, con effetto molto bello. Ma nel resto, abbiamo l'inserzione di sghignazzamenti, urletti e urlacci che sembrano appiccicati con lo scotch, tanto sembrano innaturali e forzati.

Per concludere l'opera, segnalo che nei panni di Parpignol c'è Don Bernardini, uno che con sommo sprezzo del pericolo (e del ridicolo) pochi anni dopo affrontò addirittura i Puritani: qui è sgradevolissimo.
Occasione in definitiva sprecata. E' uno di quei dischi per cui vale la pena che esista Spotify: un ascolto occasionale.

@Ives @Pinkerton @Majaniello

Che questa Bohème, Wittel, sia un po' un ircocervo, come avete ben argomentato tu e Ives nelle vostre belle note, è vero. La differenza di qualità tra l'orchestra di Bernstein e il cast vocale è evidente. Però io non stroncherei senza appello questa edizione che invece, grazie al direttore, merita di essere conosciuta. I cantanti principali, chi più chi meno, hanno tutti delle lacune, ma nessuno di loro canta in modo scandaloso ( salvo forse qualche passaggio sgraziato della Roux). Se mai difettano di personalità.

 

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On 7/4/2023 at 10:11, Pinkerton dice:

Che questa Bohème, Wittel, sia un po' un ircocervo, come avete ben argomentato tu e Ives nelle vostre belle note, è vero. La differenza di qualità tra l'orchestra di Bernstein e il cast vocale è evidente. Però io non stroncherei senza appello questa edizione che invece, grazie al direttore, merita di essere conosciuta. I cantanti principali, chi più chi meno, hanno tutti delle lacune, ma nessuno di loro canta in modo scandaloso ( salvo forse qualche passaggio sgraziato della Roux). Se mai difettano di personalità.

Oso dire che se Hadley avesse sfumato e variato di più, sarebbe stato un grande Rodolfo nel solco del modello-Pavarotti.

Intanto...

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La Preiser ci regala questa Aida registrata nel 1953 a Venezia dalla statunitense Remington. E' una registrazione low cost, ma di lusso, perché annovera anche elementi di una certa fama, seppure all'inizio del percorso artistico. Il suono è variabile, ma nel complesso abbastanza godibile. Vale la pena un ascolto? Ora vediamo.

L'opera è piuttosto ben diretta dal navigato Franco Capuana: all'inizio serpeggia qualche momento generico, ma poi la bacchetta prende quota, dosando molto bene le grandi scene d'assieme (direi proprio ben riuscito, il Trionfo) e accompagnando con giudizio ma senza remissività. L'orchestra della Fenice, una volta di più, mostra come prima degli anni Sessanta fosse di livello ben diverso rispetto ai decenni successivi: compatta, incisiva. Il coro forse un po' meno, ma anche lui è di buona pasta.

Mary Curtis, come Aida, per fortuna non ripete il mezzo disasatro fatto con l'Amelia del Ballo ripresa a Torino dalla Rai negli stessi anni. Ricorda in qualche modo (in piccolo eh!) la Callas, perché qui prova a immascherare registro centrale e basso, che non suona mai aperto e piatto come nella maggioranza delle colleghe dell'epoca. La voce in sé non ha particolari qualità, e anzi sugli acuti tende a punzecchiare e a stridere un poco. Il settore centro-alto, però, è morbido e modulato, anche se non seducentissimo. La Curtis gioca la sua Aida tutta in chiave lirica, in qualche modo allacciandosi a Giannina Arangi-Lombardi. L'intendimento porta a discreti risultati nel "Ritorna vincitor!" e nel "Cieli azzurri", che pure è concluso da un do acuto non esattamente da copertina. In genere, il personaggio è risolto con sonorità dolci ed espressive, che danno alla sua esecuzione un sapore insolito e tutto sommato abbastanza gradevole, seppur senza giganteggiare.

Molto ordinario è semmai il Radames del simpatico toscano Umberto Borsò, un cantante allora agli inizi e destinato a onorata carriera in provincia e talvolta in qualche teatro maggiore. Oggi un simile tenore, pur con tutti i suoi difetti che vedremo, verrebbe forse impiegato ovunque. Si capisce invece perché all'epoca non divenne una star: la voce è abbastanza bella, ma non personalissima; la tecnica è piuttosto corretta, ma il cantante gonfia i centri (sentire "Sì, fuggiam da queste mura"), col risultato che gli acuti sono timbrati ma anche affetti da un certo grado di fibrosità. Quanto alla personalità, è proprio povera: un Radames annoiatissimo, decisamente uniforme, che non dà sapore a quel che canta. Troppo impersonale come personaggio, e non abbastanza eccezionale come vocalista, Borsò non è un Radames terribile, ma nemmeno offre qualche motivo per ricordarlo.

Qualche problema del genere ce l'ha Oralia Dominguez, malgrado una vocalità molto più rigogliosa. La giovane messicana si era fatta notare nel suo Paese nel corso di una famosa tournée callasiana con Del Monaco. Se là aveva esagerato parecchio, qui incorre nell'eccesso opposto: un'Amneris timida e decisamente troppo morigerata, che non va in alcuna direzione riconoscibile. Il timbro è pieno e brillante, l'esecuzione ricca e gagliarda malgrado gli estremi acuti si stirino e si scompongano un po', ma non dice niente.

Dice molto invece il sobrio, nobile ma anche barbarico Amonasro di un Ettore Bastianini colto giusto prima che firmasse il contratto con la Decca. La sua esecuzione è limpida, chiara, facile, caratterizzata da una bella dizione (cosa che vale anche per Borsò) e da un passaggio di registro all'epoca armonioso e non troppo gutturale. Uniamoci anche che è espressivo: forse convenzionale, ma dà senso a quello che canta, e del resto il personaggio non consente troppe sottigliezze.

Norman Scott, che si era già visto all'opera con Toscanini, è un Ramfis di buon valore, ottimo soprattutto nel "Nume, custode e vindice" e capace anche della giusta implacabilità. Enzo Felicitati dal canto suo è un Re d'Egitto dalla vera voce di basso, e per giunta d'accento giustamente autorevole. Veramente bravo, per finire, il Messaggero del veterano della Fenice Uberto Scaglione, che canterà fino alle soglie degli anni Ottanta.

A questo punto, voglio sentire come se la caverà la Curtis nell'Aida registrata con Corelli.

@Majaniello

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@Wittelsbach stai battendo i meandri di Spotify!

La rece di Bernstein mi ha fatto riascoltare dopo una vita questa:

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Sul web c'è qualcuno che muove mille critiche, specie alla direzione... boh, mi chiederei piuttosto come si dirigeva questo repertorio all'epoca, si potrebbe così apprezzare la freschezza e la naiveté che regala il giovane Lenny all'opera più a rischio noia del compositore catanese. Tra l'altro, al netto di molte usuali libertà, si riaprono anche più tagli del solito. 

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20 ore fa, Wittelsbach dice:

 

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Mary Curtis, come Aida, per fortuna non ripete il mezzo disasatro fatto con l'Amelia del Ballo ripresa a Torino dalla Rai negli stessi anni. Ricorda in qualche modo (in piccolo eh!) la Callas, perché qui prova a immascherare registro centrale e basso, che non suona mai aperto e piatto come nella maggioranza delle colleghe dell'epoca. La voce in sé non ha particolari qualità, e anzi sugli acuti tende a punzecchiare e a stridere un poco. Il settore centro-alto, però, è morbido e modulato, anche se non seducentissimo. La Curtis gioca la sua Aida tutta in chiave lirica, in qualche modo allacciandosi a Giannina Arangi-Lombardi. L'intendimento porta a discreti risultati nel "Ritorna vincitor!" e nel "Cieli azzurri", che pure è concluso da un do acuto non esattamente da copertina. In genere, il personaggio è risolto con sonorità dolci ed espressive, che danno alla sua esecuzione un sapore insolito e tutto sommato abbastanza gradevole, seppur senza giganteggiare

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A questo punto, voglio sentire come se la caverà la Curtis nell'Aida registrata con Corelli.

@Majaniello

La Curtis Verna, Wittel, non mi convince.

La sua Aida liricizzante è abbastanza modulata, ma il timbro ha un fondo asprigno e l'emissione risulta un po' "indietro" e lievemente schiacciata. Ne viene fuori un suono piuttosto artificioso e privo di calore.

 

 

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20 ore fa, Wittelsbach dice:

 

41-W-o85a-QTL-SX300-SY300-QL70-FMwebp.we il Radames del simpatico toscano Umberto Borsò, un cantante allora agli inizi e destinato a onorata carriera in provincia e talvolta in qualche teatro maggiore. Oggi un simile tenore, pur con tutti i suoi difetti che vedremo, verrebbe forse impiegato ovunque. Si capisce invece perché all'epoca non divenne una star: la voce è abbastanza bella, ma non personalissima; la tecnica è piuttosto corretta, ma il cantante gonfia i centri (sentire "Sì, fuggiam da queste mura"), col risultato che gli acuti sono timbrati ma anche affetti da un certo grado di fibrosità. Quanto alla personalità, è proprio povera: un Radames annoiatissimo, decisamente uniforme, che non dà sapore a quel che canta. Troppo impersonale come personaggio, e non abbastanza eccezionale come vocalista, Borsò non è un Radames terribile, ma nemmeno offre qualche motivo per ricordarlo..

@Majaniello

Di Umberto Borso' si apprezza il timbro pieno e maschio e soprattutto l'uguaglianza di registro. Certo un po' più di slancio e di coinvolgimento drammatico non avrebbe guastato. È uno di quei cantanti che si accontenta di fare le note. Peccato, perché i mezzi li aveva.

Così ci appare in questa apparizione televisiva dove canta lo Chenier.

 

 

 

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