Jump to content

Le recensioni operistiche discografiche di Wittelsbach


Wittelsbach

Recommended Posts

7619990104181_0_536_0_75.jpg

Prende il via il Ring bayreuthiano del 1960: l'inizio di un nuovo ciclo nel teatro bavarese.
Il Ring postbellico aveva visto la luce la prima volta nel 1951, con la nuovissima produzione di Wieland Wagner, che comunque nel corso degli anni farà qualche cambiamento. La produzione restò in cartellone fino al 1958, e la parte musicale fu destinata alle cure amorevoli di Karajan, Knappertsbusch, Keilberth e Krauss: le Quattro K di Bayreuth.
Il '59 fu un anno di transizione, senza il Ring. Nel 1960, i due Wagner vollero giustamente varare una nuova produzione, per smuovere le acque: dunque nuova regia, e nuovissimi cast. Alla scena si dedicò Wolfgang, il fratello minore, con una messinscena che sembrò scontentare sia i tradizionalisti che gli audaci (questi ultimi la ritenevano una scimmiottatura in brutto dello stile di Wieland). La produzione rimase in scena nelle cinque stagioni 1960-1964, le prime quattro con Rudolf Kempe in buca, e l'ultima con l'episodico Berislav Klobucar, maestro croato di scuola austroungarica, che sarebbe stato il direttore più giovane (40 anni) fino ad allora impiegato nella Bayreuth postbellica. Il cast fu anch'esso rivoluzionato, mescolando vecchie glorie a forze fresche e rampanti.

Questo cofanetto della Pan comprende quattro serate della primissima annata, una per ogni opera: in agosto la Valchiria, le altre in luglio. Il suono è il classico monofonico tedesco di buona qualità, e la documentazione contiene un libretto con le informazioni dei dischi e un paio di piccoli scritti, in inglese.

RHEINGOLD
Finora ho sentito un interessante Rheingold. Un altro mondo, rispetto alla Bayreuth degli anni immediatamente precedenti! Si respira un'aria nuova, in orchestra e in parte anche nel canto, in un mondo renano più colorato e decadente. L'antecedente immediato? Il Karajan del 1951, poi sloggiato per insanabili divergenze con Wieland. Qualcuno dice che nel '60 Kempe doveva ancora "prendere le misure" delle sonorità della fossa coperta dell'orchestra. Sarà. Fatto sta che in questa concertazione emerge la tranquilla fluidità del Kempre grandissimo straussiano, la stessa che faceva capolino nei suoi Meistersinger di Dresda da me recensiti: sonorità morbide, cangianti, ben diverse dalla rocciosità di Knappertsbusch o Furtwangler. Va bene, l'Oro del Reno non consente chissà quali macigni sonori: sarà interessante sentire le successive opere. Trattandosi di una registrazione di un'unica recita, l'orchestra commette imprecisioni: una, ben avvertibile, è il distinto scrocco delle trombe quando enunciano il maestoso tema dell'oro nella Prima Scena.

Il cast fa il suo mestiere con bravura. A spiccare è Gerhard Stolze: un Loge sensazionale. La sua bravura sta nella maggior moderazione che udiamo qui, rispetto alla "sperimentale" prova che sentiremo nel futuro Rheingold di Karajan inciso in studio. Anche il famoso "Durch Raub!" è più attenuato, meno urlato ma non meno efficace, anzi di più. In questa edizione, Stolze non rende più brutta la sua voce, che si espande con un'imponenza e una solidità da heldentenor, e che arricchisce un fraseggio di intelligenza sopraffina, machiavellica, mai caricaturale (e mi spiace, il suo Loge di studio a volte lo sarà). Perfetto, e decisamente in anticipo sui tempi.

Un piccolo neo è l'accoppiata Hermann Uhde-Otakar Kraus: e non per carenze degli interpreti, ma per una similarità timbrica che francamente, nelle scene in cui cantano insieme, confonde parecchio.
Uhde è il Wotan che abbiamo conosciuto in altre produzioni: consapevole, con una punta di beffardo disincanto, molto serio e "teatrale", molto novecentesco, moderno, benissimo cantato. Una certezza.
Otakar Kraus, un singolare esule che andò in Inghilterra per sfuggire ai nazisti, si era fatto un nome al Covent Garden: pochi anni prima, con lo stesso Kempe, aveva impersonato Alberich in memorabili performance londinesi, immortalate anche in cd, sia pure di discutibile qualità tecnica. E' altamente probabile che Wieland e Kempe l'avessero scelto insieme, e che dunque ci fosse un notevole affiatamento pregresso: che qui del resto si percepisce. E', Kraus, un Alberich dal canto nitido e affilato, che alla torva grandiosità di un Neidlinger preferisce un eloquio decisamente più terreno, con qualche momento in cui giunge dappresso al plateale, pur controllandosi. La miseria interiore del nibelungo è fatta percepire con accenti più diretti nella loro disperata perfidia. Sul canto, le prove non buone sentite da me di questo cantante mi avevano fatto pensare al peggio, invece no: suono solido, ben modulabile, non sopraffino ma efficace.

Il fratello Mime è il debuttante Herold Kraus: il tenorino preferisce un'interpretazione piuttosto tradizionale, che non scansa la petulanza, ma realizzata con professionismo e complessivamente senza troppe cadute di gusto.

Eccellenti i giganti, col ritorno di Arnold van Mill, stavolta come Fasolt, e il Fafner dell'interessante Peter Roth-Erang, 35 anni, destinato a morire nel 1966 per un infarto: voce opaca, la sua, ma eloquio felpato e incisivo.

E gli altri? C'è la Fricka di Hertha Topper, il contralto preferito da Karl Richter: timbro molto maturo, quasi cupo, e interpretazione che va nella medesima direzione, con risultati abbastanza inediti. I "fratelli dei" vedono un Thomas Stewart (addirittura) come notevole Donner, il discreto anche se non memorabile Froh di Georg Paskuda, la Freia scintillante di Ingrid Bjoner. E per concludere, un buon terzetto di Figlie del Reno.

Chi lo vuole? @Snorlax

Link to comment
Share on other sites

  • Replies 2.3k
  • Created
  • Last Reply

Top Posters In This Topic

On 26/1/2022 at 01:13, Wittelsbach dice:

Aggiungo, a mo' di bonus, la Calunnia di Tozzi.

 

Tozzi qui eccede in buffonaggine.

Il riferimento assoluto del brano è quello del grande Tancredi Pasero: una voce privilegiata impostata al meglio( l'immascheramento degli acuti è pressoché perfetto) e il senso del comico reso con gusto e misura 

 

 

Link to comment
Share on other sites

  • 2 weeks later...
On 4/2/2022 at 15:25, Pinkerton dice:

Tozzi qui eccede in buffonaggine.

Il riferimento assoluto del brano è quello del grande Tancredi Pasero: una voce privilegiata impostata al meglio( l'immascheramento degli acuti è pressoché perfetto) e il senso del comico reso con gusto e misura 

 

 

Il vibratino stretto di Pasero è da sempre amore alla prima nota!
Altri uomini!

Link to comment
Share on other sites

7619990104181_0_536_0_75.jpg

LA VALCHIRIA

La Valchiria, rispetto alle altre serate di quello stesso ciclo, fu registrata in agosto, non so perché. Si tratta di registrazioni che circolavano già da anni su etichette come la Myto. In effetti, la Radio bavarese era solita trasmettere ogni serata, e dunque non era spaventosamente arduo ricavarne delle registrazioni più o meno caserecce. Mi sento di dire, senza timore di errare, che questi dischi documentano lo spettacolo con un suono senz'altro buono.

Bene, ma com'è il risultato musicale?
Ecco, io dico che anzitutto mi piace l'orchestra. Rudolf Kempe sì che è moderno! Traccia un Wagner che vorrei definire cameristico, come molti definivano quello di Karajan (che invece non lo era assolutamente) e come definirò quello di Swarowski, che però andrà molto oltre. In Kempe si apprezza una narrazione di passi molto svelti, di suono orchestrale leggero e nitido, acquarelloso ma non svanito, con buoni risultati nel Primo Atto (anche se forse sull'abbandono si poteva fare meglio) e con discreti dividendi pagati nel Terzo, un momento scenico che personalmente trovo assolutamente ostico e (oso dirlo) noioso.

I cantanti sono al di sotto.
A prevalere, è Astrid Varnay. Se Siegfried e Crepuscolo saranno affidati alla Nilsson (ed era ora!), la meno problematica Brunnhilde di Valchiria è stata attribuita, come negli anni precedenti, alla grande leonessa norvegese svedese (ma anche americana). La prova vocale della Varnay, se la si paragona ad altri documenti coevi, è decisamente importante. Sembra pressoché intatta: incisivo e non ancora oscillante il registro alto, roccioso quello centrale, con una solidità da autentico soprano drammatico che emoziona ancora. Immutato è anche il fraseggio: una Valchiria indomabile, d'acciaio, drammatica senza eccessi, immedesimata senza scadere nel cipiglio grifagno (eterno rischio di questa parte), emotiva al massimo. Francamente sono rimasto stupito perché credevo di udirla in difficoltà.

Chi certo non denota difficoltà è una scelta inedita come Wotan. Jerome Heinz, nome d'arte Jerome Hines, si trova a sbarcare a Bayreuth nei panni del personaggio più duro, difficile e gratificante. E vocalmente è qualcosa di stupefacente. Lo stesso Hotter dei giorni migliori è superato: Hines entra in scena con un timbro da vero basso, ampio, vellutato, ricco di colori scuri e avvincenti, ma ciò non gli impedisce di sventagliare un Fa acuto colossale. E così sarà nel corso di tutta l'opera, dominata con una souplesse canora decisamente rimarchevole. Però, il debutto si sente. Il personaggio difetta decisamente in carisma. Il colloquio con Fricka, pagina davvero assassina, è piatto. Qualcosa si smuove con le acri inflessioni escogitate all'inizio del suo monologo, ma poi si piomba in un'alternanza tra aristocratica morbidezza e frasi a tutta forza, con fiati grandi così. Un po' poco. Se ci si accontenta della voce, abbiamo un Wotan da prima pagina. Io però non mi accontento.

Molto deludente la coppia degli amanti. Wolfgang Windgassen, estromesso temporaneamente dal ruolo di Siegfried, si trova catapultato su Siegmund, come non di rado gli capitò negli anni precedenti. E ancora una volta, malgrado avesse maturato esperienza anche in questa parte, si trova fuori posto. A parte la bassa tessitura, Windgassen canta senz'altro molto bene. Ma lo slancio del suo Siegfried del Crepuscolo di Keilberth (per dirne una) qui non c'è proprio, sostituito da una scansione monotona, del tutto priva di inflessioni di qualunque interesse: il culmine è un "Wintersturme" di raro cinismo.
Però la sua partner è assai peggiore. Aase Nordmo-Lovberg, per dire le cose come stanno, è un tracollo. Sembra partire molto bene, col giusto senso della frase e della voce, ma poi declina, e tramuta Sieglinde in una pupattola petulante, per giunta menomata da acuti striduli, fissi, pressoché atroci ovunque. Così, il Primo Atto è buttato al cesso, ma è abominevole anche il suo ringraziamento a Brunnhilde sulle note del tema della redenzione. Nefastissima.

A tirare su il livello provvede Gottlob Frick, che prende il posto del Greindl dei cicli precedenti per darci un Hagen torreggiante, scuro e forte, anche se in studio con Solti rifinirà meglio il suo personaggio.
Per finire, la Fricka di Hertha Topper è onesta e volonterosa, anche senza brillare, e lo stuolo di Valchirie è buono.

@Snorlax @Majaniello @Ives @superburp

Link to comment
Share on other sites

7 minuti fa, Wittelsbach dice:

A prevalere, è Astrid Varnay. Se Siegfried e Crepuscolo saranno affidati alla Nilsson (ed era ora!), la meno problematica Brunnhilde di Valchiria è stata attribuita, come negli anni precedenti, alla grande leonessa norvegese (ma anche americana).

Svedese !

Link to comment
Share on other sites

48 minuti fa, Wittelsbach dice:

ah ecco!

Interessante (non sapevo prima di aver approfondito, poco fa): nata in Svezia da genitori entrambi ungheresi ma di origini francesi e tedesche; madre risposata con un italiano quando lei era ancora bambina. Ancor giovane parlava ungherese, tedesco, inglese, francese, tedesco e italiano; forse non lo svedese (almeno non ne ho trovato notizie) perché, in fondo, in Svezia visse solo quando era piccolissima.

Link to comment
Share on other sites

1 ora fa, Wittelsbach dice:

Ecco, io dico che anzitutto mi piace l'orchestra. Rudolf Kempe sì che è moderno! Traccia un Wagner che vorrei definire cameristico, come molti definivano quello di Karajan (che invece non lo era assolutamente) e come definirò quello di Swarowski, che però andrà molto oltre. In Kempe si apprezza una narrazione di passi molto svelti, di suono orchestrale leggero e nitido, acquarelloso ma non svanito

Mi interessa questo discorso, perchè hai usato l'aggettivo "moderno"; moderno in relazione alla sua epoca o in relazione ad oggi? 

Più che di Wagner mi occupo sempre dei wagnerismi applicati ad altro repertorio, però mi resta la curiosità di capire qual era/è il riscontro di pubblico e critica rispetto alle letture "mendelssohniane" (banalizzo) di Wagner, molto meno chiacchierate di altre, ma storicamente ben rappresentate da una certa quantità di registrazioni (ricordo anche tue rece di Kegel, forse Parsifal). Insomma il Wagner de-wagnerizzato quanto appeal sulla massa aveva e quanto ne ha oggi? a latere: qualcuno si è mai occupato di "filologia wagneriana"? e questa si può far corrispondere alle coordinate dei direttori di tradizione wagneriana o va cercata in una zona nuova (non mendelssohniana certo, ma magari "terza")?

Link to comment
Share on other sites

1 ora fa, giobar dice:

Interessante (non sapevo prima di aver approfondito, poco fa): nata in Svezia da genitori entrambi ungheresi ma di origini francesi e tedesche; madre risposata con un italiano quando lei era ancora bambina. Ancor giovane parlava ungherese, tedesco, inglese, francese, tedesco e italiano; forse non lo svedese (almeno non ne ho trovato notizie) perché, in fondo, in Svezia visse solo quando era piccolissima.

Ha avuto una bella vita la signora Astrid! Molto intricata.

1 ora fa, Majaniello dice:

Mi interessa questo discorso, perchè hai usato l'aggettivo "moderno"; moderno in relazione alla sua epoca o in relazione ad oggi? 

Più che di Wagner mi occupo sempre dei wagnerismi applicati ad altro repertorio, però mi resta la curiosità di capire qual era/è il riscontro di pubblico e critica rispetto alle letture "mendelssohniane" (banalizzo) di Wagner, molto meno chiacchierate di altre, ma storicamente ben rappresentate da una certa quantità di registrazioni (ricordo anche tue rece di Kegel, forse Parsifal). Insomma il Wagner de-wagnerizzato quanto appeal sulla massa aveva e quanto ne ha oggi? a latere: qualcuno si è mai occupato di "filologia wagneriana"? e questa si può far corrispondere alle coordinate dei direttori di tradizione wagneriana o va cercata in una zona nuova (non mendelssohniana certo, ma magari "terza")?

Dunque! La lettura di Kegel va ancora oltre e fa un Wagner pressoché novecentesco, a mio modo di vedere. Il Wagner alla Mendelssohn più evidente secondo me è quello del Ring di Swarowski, anzi lo definirei addirittura alla Beethoven! Il Ring di Moralt è un'altra cosa che gioca in quella direzione, anche se punta molto alla cantabilità.
Sull'argomento avevo trovato un ebook che mi ero letto, aspettandomi molto e rendendomi conto che invece era assai approssimativo. Dovremmo scriverlo noi.

Il "moderno" di Kempe, alla luce delle tue considerazioni, in effetti ci sta relativamente. Come ricordi, c'erano anche altri che lavoravano in quella direzione. Forse è più moderno perché oggi quel modo di dirigere è più diffuso. L'antecedente più interessante è probabilmente il Karajan del suo Ring del 1951, di cui ci sono rimasti Oro del Reno e Siegfried, che ho descritto. Già all'epoca c'era gran parte del Karajan successivo, anche se meno manipolatorio del suono e più ammaliato dai dettagli ritmici.

Link to comment
Share on other sites

1 ora fa, Majaniello dice:

qualcuno si è mai occupato di "filologia wagneriana"? e questa si può far corrispondere alle coordinate dei direttori di tradizione wagneriana o va cercata in una zona nuova (non mendelssohniana certo, ma magari "terza")?

Certo! Ha destato grandissimo interesse il progetto del Ring diretto da Kent Nagano niente meno che con il ... Concerto Köln. Ho letto delle interessantissime interviste di Nagano sul progetto e delle recensioni molto lusinghiere sulle prime esecuzioni del Rheingold in forma di concerto avvenute a Colonia e al Concertgebouw nel novembre scorso. Non è una iniziativa farlocca e modaiola, perché dietro ci sono studi musicologici importanti che vanno avanti da anni coordinati dall'università di Colonia. Il Concerto Köln ha anche messo su un sito appositamente dedicato al progetto: https://wagner-lesarten.de/project.html

Link to comment
Share on other sites

Arricchisco la discussione: uno dei primi Ring "filologici", se non il primo, fu quello di Solti. Per quel progetto discografico, il primo Ring completo in studio di registrazione, si decise di fare uno studio delle varie partiture. E, sorpresa, sembrò proprio che le partiture che fino ad allora si utilizzavano fossero state spesso ristampate senza verifica, e non prive di erroracci mai corretti. Quanto all'esecuzione, Solti ripristino i tre stierhorn nella scena di Hagen col coro (credo non si sentano da nessun'altra parte tranne nell'incisione di Moralt, sono sempre sostituiti dai tromboni), e fece costruire apposta le diciotto incudini del Nibelheim, secondo le prescrizioni di Wagner.

 

Questo di Nagano dev'essere interessante.

Link to comment
Share on other sites

16 ore fa, Wittelsbach dice:

 

Questo di Nagano dev'essere interessante.

Per più di un motivo. Anzitutto, Nagano è un direttore serio e con un grande retroterra nel suo repertorio, tradizionale e moderno, e non è certo un "profeta" di qualche tendenza interpretativa d'avanguardia. Poi, come dicevo, alle spalle c'è una grossa iniziativa di studio. E proprio questo stimola la curiosità riguardo alla prestazione orchestrale. Staremo a sentire...

Link to comment
Share on other sites

7619990104181_0_536_0_75.jpg

SIEGFRIED

Interessante, il Siegfried del primo ciclo bayreuthiano con regia di Wolfgang Wagner e conduzione sonora di Rudolf Kempe. Qui tutte le facce sono nuove, giusto Hermann Uhde (che comunque di solito non faceva il Wanderer) è rimasto a fare da trait d'union coi formidabili anni precedenti. La qualità sonora è decisamente buona, se si fa eccezione per le frasi di Fafner, evidentemente mortificate dall'impianto scenico più che dai microfoni.

La direzione di Kempe, come e forse più che nelle opere precedenti, è rivelatrice di una sensibilità diversa da quella di Knappertsbusch e anche dello stesso Keilberth. Fino ad allora, non avevo mai sentito accompagnare la musica di Siegfried (inteso come il personaggio protagonista) con simile impeto, forza vitale, direi voglia di vivere: l'orchestra col suo semplice suono tratteggia l'essenza del giovane e scapestrato eroe in una manciata di battute. Il mormorio della foresta va in una direzione opposta rispetto ad altri: non senti il profumo del bosco, ma piuttosto la brezza, la vitalità. Strepitoso l'inizio del Terzo Atto: il tempestoso preludio pare il Temporale dell'Alpensinfonie per forza evocativa, e la successiva scena con Erda è caratterizzata di sciabolate di grande impatto drammatico. In genere, i tempi sono piuttosto asciugati: questa recita rientra nel ristrettissimo club dei Siegfried che stanno in soli tre cd, ed è dire abbastanza. Già Siegfried, delle quattro, è l'opera che personalmente prediligo: diretta così, mi sembra davvero il capolavoro che è, senza un istante di noia.

Il cast è davvero interessante da valutare nel complesso. Un tenore come Hans Hopf, probabilmente, negli anni precedenti avrebbe fatto comodo a Knappertsbusch e alla sua orchestra di possente tonnellaggio, in cui il pur ottimo Windgassen tendeva a perdersi e a stancarsi. Il tenore di Norimberga, di fatto, si comporta nel modo contrario rispetto alla maggior parte dei Siegfried discografici: questi ultimi di solito tirano a campare, e provano a colorare i passi di conversazione o la scena della foresta, cercando poi di non affogare nei momenti difficili. Hopf invece è altra roba. Nel Primo Atto fa un effetto che potrei definire strano: abbiamo un Siegfried che canta con spessi centri totalmente baritonali, per giunta ingrossati, affondati, arrotondati all'inverosimile, e dunque ancora più scuriti. Pare Del Monaco, in certi punti. Il fraseggio è talvolta ampolloso, talaltra impersonale. Certo è che la gioventù, in questo Siegfried che dimostra cinquant'anni, occorre immaginarsela. Se non altro, non è un Mime travestito da Siegfried, e il suo vocione si distingue benissimo dal timbro piccolo e pettegolo di Herold Kraus. Stesso andazzo anche nella scena della foresta, ove qualche ammorbidimento è tentato, ma senza una reale strategia interpretativa. E pure di fronte a Brunilde addormentata, si sente la mancanza dei chiaroscuri di Aldenhoff o dello stesso Windgassen. Coi passi più pesanti, però, la musica è ben diversa. La forgiatura è dominata con fiati giganteschi, ricco legato, ampio volume, linea solidissima e potentissima, come non sentivo dall'epoca di Melchior e Aldenhoff. Il duetto finale, croce e delizia di Windgassen che ci arrivava stanchissimo, è risolto con baldanza, suoni intensi e dal bel colore, senza alcun senso di affanno. Non era impresa da poco, riuscire a tener testa in questo modo a un Birgit Nilsson giovane. Faccio una sintesi: è innegabile la prosaicità di questo Siegfried nelle schermaglie con Mime e col Wanderer. Ma parimenti, non si può passar sopra alla bravura nel venire a capo dei momenti più impegnativi e spettacolari. Ma finora, il Siegfried del Siegfried che mi è sembrato più emozionante, oltre a Melchior, è appunto Aldenhoff con Karajan nel 1951. Chissà che mi combinerà nel Crepuscolo...

Appunto, Birgit Nilsson è Brunnhilde, ed era il tempo! Questa Brunnhilde, rispetto alle successive, ha un accento più energico, giovanile, incosciente: un dato teatrale che non sempre troveremo nell'armamentario della Nilsson. Uniamoci una linea vocale del tutto a punto, di colore bellissimo e straordinariamente fotogenico. Il diluviante Do acuto che chiude l'opera è perfetto riassunto.

Ritorna, come già nel Rheingold, l'accoppiata di arcinemici Hermann Uhde e Otakar Kraus, e le cose qui si fanno ancora più spinose. Anche qui, non si tratta di deficienze dei due artisti. Il fatto è uno: Uhde e Kraus hanno un timbro pressoché identico. Non somigliante: è praticamente uguale. L'inizio del Secondo Atto confonderà chiunque non conosca l'opera a memoria o la ascolti senza il testo a fronte, e questo è un male.
Un male perché singolarmente sono molto bravi.
Uhde, che conoscevo come Wotan nel Rheingold, come Wanderer ci regala quello che, più che un viaggiatore, sembra piuttosto essere un vagabondo, col carico di frustrazione e nervosismo che ne deriva. Dunque i suoi dialoghi con Mime ci portano di fronte un personaggio scostante ma non altero, quanto piuttosto bassamente arrogante. Con Alberich, ecco lo scontro tra due individui che sembrano più simili di quanto non si pensi (e forse le vicinanza timbrica contribuisce a far pensare a un'identità anche caratteriale). Con Erda, invece, prorompe di nuovo il Dio che si ricorda chi è e cosa rappresenta, con un eloquio finalmente ampio e magniloquente, anche se sempre con scorie di quella piccineria terrestre e morale che ormai gli conosciamo. E figurarsi che accade di fronte a Siegfried.
Eccellente anche il torvo, cupo e vigoroso Alberich di Kraus, la cui rabbia e disperazione non sono un gioco intellettuale, ma una sensazione avvertibile a fior di pelle.

Si rivede il Mime di Herold Kraus. Anche stavolta, la sua prestazione sopporta qualche frizzo evidente ma non eccessivo, compensato comunque con una varietà di fraseggio singolarmente accattivante, e capace di rendere alla perfezione la vischiosa e ambigua indole del Nano, dominando la scena al cospetto di un Siegfried che sembra molto meno acuto di lui.

Anche Erda ha con Marga Hoffgen un'interprete di riferimento, che la sottrae allo stilema della suora salmodiante per darci invece un carattere forte, risoluto, imperativo.

Il Fafner di Peter Roth-Erang si intuisce discreto anche se non colossale nel registro grave, ma a causa della conformazione scenica si sente davvero troppo male. Per finire, un po' calante di intonazione l'Uccellino di Dorothea Sieberth.

 

@Majaniello @giobar @Snorlax @Ives

Link to comment
Share on other sites

  • 1 month later...

71g6XxDDcGL._AC_SX450_.jpg

Uno dei primi grandi tentativi di una major di fare qualcosa di serio sul Gluck "riformato". E, direi, con un risultato che posso senza dubbio definire lusinghiero.
John Eliot Gardiner, quando incideva opere francesi (e l'Ifigenia in Tauride lo è), manovrava spesso l'orchestra dell'opera di Lione. Strumenti moderni sì, ma fatti suonare senza troppo vibrazionismo pseudoromantico. E per giunta, manovrati con una varietà di colori e dinamiche che rende dilettevole l'ascolto di questa peraltro agile, per nulla paludata opera.
Di Gardiner, colpisce il vasto panorama di intensità, di tinte, di adattamenti dell'orchestra a quanto avviene sul palcoscenico: la teatralità insomma, che non sempre farà parte del bagaglio spontaneo di questo direttore. Lo sfondo orchestrale di questa Ifigenia, per dire, risulta molto più mosso e interessante rispetto al futuro Idomeneo di Mozart che recensirò. Il Coro Monteverdi, lui creazione dello stesso Gardiner, si inserisce a meraviglia in questa vicenda, cantando con perfezione strumentale e ottimo accento tutti i brani che gli sono affidati.

Il buco, purtroppo, è la protagonista. Forse una Von Otter, all'epoca, sarebbe stata alquanto giovane, forse troppo. Ma non è che la più esperta Diana Montague, sul terreno della vividezza accentale, sia proprio un'Ifigenia irresistibile. Tende anzi alla monotonia, esagerando fin troppo con un'espressione da Madonna delle Lacrime che continua dall'inizio alla fine, senza alcuna evoluzione interessante. Da un punto di vista musicale, poi, le cose vanno maluccio: la voce è mal sostenuta, tende a scompaginarsi appena sale, dando luogo a suoni calanti e sfiatati. Diciamo che è un'Ifigenia ai bordi della correttezza.

Niente del genere per un Thomas Allen particolarmente in palla. Il suo Orest è anzitutto cantato con voce limpida, pulita e svelta nell'emissione, di un timbro chiaro particolarmente adatto al personaggio e alla scrittura. In secondo luogo, l'accento è il più mosso e vario dell'intero cast. Oreste, si sa, è sempre stato figura particolarmente intrigante in tutta la tradizione drammaturgica scaturita dalla mitologia greca: e il volto datogli da Allen non fa eccezione, per giunta manifestando particolare empatia con la bacchetta di Gardiner.

L'altro baritono, René Massis, ha un'emissione gutturale e piuttosto disastrata. All'inizio mi aveva sconcertato, ma poi mi sono reso conto che un personaggio barbarico come Thoas può anche essere tratteggiato da una voce simile. Ma, attenzione, l'ho detto perché dietro c'è anche un retroterra interpretativo: e Massis, forte dell'essere madrelingua, è senz'altro il più bravo a fare uso espressivo della dizione francese.

L'americano John Aler, tenore di voce morbida e aggraziata, non ha lo stesso acume recitativo, ma ha sufficiente sensibilità per accarezzare le voluttuose linee musicali di Pylade, con risultati senza dubbio interessanti.

Le altre parti sono molto piccole, e se la cavano onorevolmente.

 

@Majaniello @Ives @hurdy-gurdy

Link to comment
Share on other sites

  • 10 months later...

image.jpg

Una latitanza vergognosa dalle recensioni, la mia! Fin troppo lunga! Ragazzi, rimedio presentandovi l'ultimo mio ascolto. Il Barbiere di Rossini, in questa incarnazione, è il preferito di @Snorlax. E qualche motivo per accordare simile preferenza ce l'ha. E' un'edizione italiana! E badate: non solo per la nazionalità degli interpreti. E' italiana perché tutti cantano in un italiano incredibile, nitidissimo, chiaro come il sole, perfettamente intelligibile malgrado la registrazione del 1950 non sia proprio all'avanguardia tecnicamente. Io, nonostante qualche congenito difetto del tutto, mi sono divertito molto.

Al passivo del coscienzioso maestro Fernando Previtali, vanno senz'altro i tagli: tutti quelli tradizionali, e qualcuno in più nell'aria di Bartolo, oltre beninteso ad amputazioni consuete in molte delle altre. Per i recitativi, anche se il personaggio di Ambrogio sparisce (ma attenzione: era tagliato anche nella filologica di Abbado), pazienza. Ma nei brani musicali mi dà veramente molto fastidio, qui come in tutte le altre edizioni che seguono la medesima filosofia. Perciò, quando apparve il Barbiere RCA di Leinsdorf, molti sentirono nelle arie ben conosciute parecchie note mai udite prima.
Secondo: lo stesso Previtali è spesso e volentieri sonnacchioso e lento, come nella stretta dell'aria di Bartolo (probabilmente il momento meno riuscito dei dischi), nell'aria di Berta e in vari altri momenti. Altre volte ha invece la ritmicità giusta, ma in qualche caso sembra disinteressarsi alquanto della coesione dell'insieme, così nel grande finale del Primo Atto hanno luogo alcune situazioni musicalmente abbastanza confuse. Tuttavia, Previtali e la sua orchestra in qualche modo "funzionano", mi sembrano più a tema e teatrali rispetto all'accoppiata Alberto Erede-Maggio Fiorentino che si sentirà nella Decca 1956, che pure è registrata in ottimo stereo d'epoca. L'orchestra è quella della Rai milanese dei suoi migliori anni, e suona molto bene, anche se Previtali non è troppo duttile. Decisamente ottimo è il coro nei panni dei soldati della guardia.

Il cast, ora più ora meno, ha cospicui meriti dei singoli, ma ha grande un atout collettivo: la recitazione. Tutti recitano, interpretano. Nessuna frase cade mai nel vuoto, con nessuno di loro.
Troppo facile partire dal protagonista Giuseppe Taddei, un Figaro all'incirca perfetto, se si esclude qualche piccolo acuto non calibratissimo nella famosa Cavatina. Ma a parte questo, la medesima Cavatina ha notazioni espressive, trovate e sfumature semplicemente travolgenti. Il duetto con Almaviva, che di solito contiene un'amputazione, è curiosamente integrale, ed è un'ottima cosa, perché l'atmosfera creata dalla vis comica di Taddei e Infantino, unita all'autorità esecutiva di entrambi, ricama un gran momento. I concertati sono estrosissimi, e in particolare è spassoso quando Taddei canta con svagata leggerezza, come quando affronta il "Buonasera" con fiorettature nitide, lievissime, molto comiche. Il canto è morbido e tondo, senza grosse difficoltà nei passi di coloratura.

Mostra confidenza con le agilità, anzi in un modo che non mi sarei mai aspettato, il tenore Luigi Infantino, ventinovenne. Ha una pasta vocale che sta a metà strada tra i "veri" tenori e i tenorini alla Alva, Monti, Misciano che negli anni successivi avrebbero cannibalizzato la parte prima che arrivasse Dano Raffanti e poi la renaissance moderna. Voglio dire: ha modi aggraziati e cordiali, ma anche una notevole timbratura e la capacità di vocalizzare di forza (ma lo fa poche volte) e di fraseggiare con incisiva energia. In ogni caso, è un Almaviva dal timbro caldo e piacevole, e capace di brillare nell'espansione sentimentale come nei momenti più spiritosi. Oh, e quando si traveste da Don Alfonso non fa nemmeno la voce stupida da impedito. Qualche macchiolina? Forse qualche imprecisione musicale e qualche incoerenza ritmica qua e là, ma il suo Conte è personaggio di notevole simpatia.

Notevolissima è poi la Simionato, specie se la si paragona con la Decca del '56. Qui è vivacissima, vocalmente splendida, molto più a suo agio col canto virtuosistico: una bellissima advocacy per la tessitura originaria di Rosina, quella per mezzosoprano. E non è solo questione vocale: anche l'interprete è azzeccatissima e teatrale.

Carlo Badioli ha il primato di una dizione che, se in tutto il cast è ottima, nel suo caso è addirittura eccellente, malgrado spesso si senta la cadenza settentrionale. Il timbro non è nulla di che, ma il canto è corretto e tondo, anche se non da far gridare al miracolo. Il suo è un Bartolo di tradizione, che talvolta diviene un po' petulante, ma grazie al Cielo si astiene dalle buffonate più pesanti. Il suo momento peggiore è "A un dottor della mia sorte", cantata non benissimo, sovraccarica interpretativamente, plurimutilata e azzoppata da un sillabato che Previtali rende lentissimo. Complessivamente, in ogni caso, anche lui contribuisce alla valida riuscita della faccenda.

Antonio Cassinelli ha una taglia vocale da "basso cantante", quindi è un Basilio per nulla cavernoso, anzi sciolto ed efficace, oltre che poco propenso a strafare. Pure lui vocalizza senza problemi nel "Buonasera". Forse manca di individualità timbrica, ma chi se ne importa.

Chiudiamo con la Berta di Renata Broilo, non proprio un tesoro di timbro ma del tutto integrata, e coi personaggi minori fatti da Piero Poldi e (forse) Gino Conti.

Ah: i recitativi, che per stile e interpretazione sono tra i migliori che si possano incontrare, sono accompagnati col pianoforte.

@Pinkerton @Majaniello

Link to comment
Share on other sites

Grande Wittel! per essere un ex-melomane, confesso di conoscere pochi "barbieri", almeno in relazione alla popolarità di questo titolo. Una delle pochissime registrazioni di musica classica che giravano a casa mia, che mio padre ricorda da bambino (quindi comprata in diretta da mio nonno, presumo) era quella Decca a cui fai riferimento, in una selezione targata Eclipse con questa precisa copertina:

NS01MzY2LmpwZWc.jpeg

E' possibile che siano state le prime note di musica classica che ho ascoltato pure io da bambino, e per un po' Rossini per me è stato questo vinile. Poi conosco l'edizione Galliera (comprata in epoca di Callas-mania), la Giulini-RAI (registrata dalla tv mille anni fa, su Fuori Orario!) e ovviamente il film di Abbado, che davano regolarmente su Classica. Una particolare che mi piaceva, forse poco travolgente ma molto idiomatica nei dettagli in un senso quasi "classicista", è quella di Gui col grande Bruscantini, di cui ero pure fan. Credo di aver sentito da qualche parte il Figaro di Capecchi, lo ricordo terribile (nei ruoli seri lo apprezzo molto). Sono quelle opere che hai ascoltato tanto all'inizio e che dai un po' per scontate. Quando avrò un po' di tempo voglio ascoltare il Barbiere hip di Jérémie Rhorer (Naxos dvd), sperando che abbia da dire qualcosa di diverso dal solito. 

W Rossini, in ogni caso. 

 

Link to comment
Share on other sites

On 18/2/2023 at 20:34, Wittelsbach dice:

image.jpg

Una latitanza vergognosa dalle recensioni, la mia! Fin troppo lunga! Ragazzi, rimedio presentandovi l'ultimo mio ascolto. Il Barbiere di Rossini, in questa incarnazione, è il preferito di @Snorlax. E qualche motivo per accordare simile preferenza ce l'ha. E' un'edizione italiana! E badate: non solo per la nazionalità degli interpreti. E' italiana perché tutti cantano in un italiano incredibile, nitidissimo, chiaro come il sole, perfettamente intelligibile malgrado la registrazione del 1950 non sia proprio all'avanguardia tecnicamente. Io, nonostante qualche congenito difetto del tutto, mi sono divertito molto.

Al passivo del coscienzioso maestro Fernando Previtali, vanno senz'altro i tagli: tutti quelli tradizionali, e qualcuno in più nell'aria di Bartolo, oltre beninteso ad amputazioni consuete in molte delle altre. Per i recitativi, anche se il personaggio di Ambrogio sparisce (ma attenzione: era tagliato anche nella filologica di Abbado), pazienza. Ma nei brani musicali mi dà veramente molto fastidio, qui come in tutte le altre edizioni che seguono la medesima filosofia. Perciò, quando apparve il Barbiere RCA di Leinsdorf, molti sentirono nelle arie ben conosciute parecchie note mai udite prima.
Secondo: lo stesso Previtali è spesso e volentieri sonnacchioso e lento, come nella stretta dell'aria di Bartolo (probabilmente il momento meno riuscito dei dischi), nell'aria di Berta e in vari altri momenti. Altre volte ha invece la ritmicità giusta, ma in qualche caso sembra disinteressarsi alquanto della coesione dell'insieme, così nel grande finale del Primo Atto hanno luogo alcune situazioni musicalmente abbastanza confuse. Tuttavia, Previtali e la sua orchestra in qualche modo "funzionano", mi sembrano più a tema e teatrali rispetto all'accoppiata Alberto Erede-Maggio Fiorentino che si sentirà nella Decca 1956, che pure è registrata in ottimo stereo d'epoca. L'orchestra è quella della Rai milanese dei suoi migliori anni, e suona molto bene, anche se Previtali non è troppo duttile. Decisamente ottimo è il coro nei panni dei soldati della guardia.

Il cast, ora più ora meno, ha cospicui meriti dei singoli, ma ha grande un atout collettivo: la recitazione. Tutti recitano, interpretano. Nessuna frase cade mai nel vuoto, con nessuno di loro.
Troppo facile partire dal protagonista Giuseppe Taddei, un Figaro all'incirca perfetto, se si esclude qualche piccolo acuto non calibratissimo nella famosa Cavatina. Ma a parte questo, la medesima Cavatina ha notazioni espressive, trovate e sfumature semplicemente travolgenti. Il duetto con Almaviva, che di solito contiene un'amputazione, è curiosamente integrale, ed è un'ottima cosa, perché l'atmosfera creata dalla vis comica di Taddei e Infantino, unita all'autorità esecutiva di entrambi, ricama un gran momento. I concertati sono estrosissimi, e in particolare è spassoso quando Taddei canta con svagata leggerezza, come quando affronta il "Buonasera" con fiorettature nitide, lievissime, molto comiche. Il canto è morbido e tondo, senza grosse difficoltà nei passi di coloratura.

Mostra confidenza con le agilità, anzi in un modo che non mi sarei mai aspettato, il tenore Luigi Infantino, ventinovenne. Ha una pasta vocale che sta a metà strada tra i "veri" tenori e i tenorini alla Alva, Monti, Misciano che negli anni successivi avrebbero cannibalizzato la parte prima che arrivasse Dano Raffanti e poi la renaissance moderna. Voglio dire: ha modi aggraziati e cordiali, ma anche una notevole timbratura e la capacità di vocalizzare di forza (ma lo fa poche volte) e di fraseggiare con incisiva energia. In ogni caso, è un Almaviva dal timbro caldo e piacevole, e capace di brillare nell'espansione sentimentale come nei momenti più spiritosi. Oh, e quando si traveste da Don Alfonso non fa nemmeno la voce stupida da impedito. Qualche macchiolina? Forse qualche imprecisione musicale e qualche incoerenza ritmica qua e là, ma il suo Conte è personaggio di notevole simpatia.

@Pinkerton @Majaniello

Grazie Wittel.

Concordo con la tua recensione forse troppo generosa nei confronti di Infantino che, pure aggraziato, risulta troppo falsettistico nelle mezze voci e nelle agilità, oltre che tendenzialmente lezioso. 

Qui nel duetto del I° Atto con Figaro tutto sommato se la cava, là dove Taddei fa valere la sua voce pastosa e cordiale, un'ampia varietà di colori e un senso del ritmo straordinario sorretto da un sillabato spettacolare. Se non di riferimento certo una delle esecuzioni più riuscite di questo duetto:

 

 

 

Link to comment
Share on other sites

Debbo dire di essere d'accordo, Pink. Qualche leziosaggine di troppo quando Infantino se la sarebbe cavata benissimo senza farle.

Intanto...

image.jpg

La Tosca "di regime"! Questa registrazione ha una fama quasi mitica, e francamente capisco perché, anche se non tutto quadra perfettamente. Fu incisa su 28 facciate di dischi a 78 giri dalla Hmv nel settembre del 1938, a Roma, coi complessi del teatro dell'opera che si mostrano più compatti e coesi di come sarebbero diventati nei decenni successivi. Lo diciamo subito: è la Tosca di Beniamino Gigli, che ci regala un Mario Cavaradossi dei più memorabili.

A dirigere, niente vecchi lupi della bacchetta. L'era del dualismo Carlo Sabajno-Lorenzo Molajoli, in rappresentanza rispettivamente di Hmv e Columbia, non esisteva più: le due case si erano fuse, quindi non era più il tempo di registrazioni a coppia della stessa opera, fatte per ragioni di concorrenza. Oltretutto, a breve sarebbero morti entrambi. Al loro posto, il trentaseienne romano Oliviero De Fabritiis, sulla breccia addirittura dal 1920 e attivo fino ai primi anni Ottanta (!), prodotto locale, allievo di Licinio Refice. Il giovane maestro tira le fila dell'opera con dinamismo, e non limitandosi a ossequiare un parterre di divi. C'è spazio addirittura per certi succosi dettagli strumentali, oltretutto messi bene in luce dall'eccellente remasterizzazione che Ward Marston ha fatto per Naxos Historical, l'edizione che ho prescelto. L'orchestra, dicevo, suona bene rispetto a quanto avrebbe fatto sentire più avanti, anche se qualche macchiolina traspare: le stonature dei legni a "Ella verrà... Per amor del suo Mario!" sono piccole ma fastidiose. Comunque, i tempi sono sempre giusti e indovinati, al pari delle sonorità.

Inevitabile, si parte da Gigli: un Mario Cavaradossi di una facilità di canto eccezionale, spontanea, discorsiva. Il lato artistico del pittore Mario emerge da una linea vocale che accarezza ogni nota con assoluta poesia, raggiungendo alti livelli nella Cavatina d'ingresso, nel duetto del Primo Atto e soprattutto nell'ultimo, in blocco. Oltretutto, qui il gusto di Gigli per sfumature piagnucolose è molto ben limitato: anche alla rischiosa "Io lascio al mondo una persona CARA", Gigli evita il plateale raddoppiamento fonosintattico della "c" che un Di Stefano (ma non solo lui) enfatizzava oltre il dovuto. Si apprezzano anche i momenti infuocati, dove lo squillo del registro acuto detta legge. Un grande. Tagliavini si ispirerà, come sempre, a Gigli nello scolpire il suo parimenti liricizzato Cavaradossi, ma con risultati inferiori perché meno fluido di tecnica.

Maria Caniglia, 33 anni, era al suo apogeo discografico, che dopo il '46 cesserà del tutto. La cantante napoletana fa capire perfettamente la convinzione di taluni autori (quorum ego) secondo cui negli anni Venti-Trenta le voci maschili surclassassero gran parte di quelle femminili per perizia canora e personalità teatrale. Non si può parlare troppo male della Caniglia: ha un vocione ampio, possente, all'epoca ancora rigoglioso anche nelle note basse, e lo usa senza risparmiarsi. Ecco, appunto: tanta voce, troppa. E non priva di peccati originali: gli acuti sono quasi tutti lievemente striduli, specie quelli estremi. Ma il problema di questa Tosca è che è antipaticissima, scostante, quasi una virago divoratrice di uomini, una baccante. L'assalto di gelosia a Mario è quasi all'arma bianca, sembra voler compiere un "maschicidio". Nel Secondo Atto ha grande grinta nei momenti più parossistici, ma quando deve declamare certe frasi esagera, e scade in un'imitazione parrocchiale di Tina Lattanzi: vi raccomando l'assassinio di Scarpia e quel che segue. Nel lirismo, malgrado qualche volonteroso sforzo di moderarsi, resta sempre qualcosa di irrisolto e duro nello svolgere le frasi, sicché il "Vissi d'arte" non è certo tra quelli imperdibili. La personalità è indiscutibile, ma è anche sommaria, monocorde e in fin dei conti non sempre centrata.

Per Armando Borgioli il discorso è opposto: elegantemente anonimo. Sarebbe interessante capire il perché della sua scrittura: all'epoca in Italia c'erano un sacco di baritoni (Inghilleri, Maugeri, Basiola, Tagliabue) di maggior caratura rispetto a lui. Il che tra l'altro è istantaneo di una realtà amara: avessimo oggi un Borgioli, che all'epoca era una seconda linea di lusso, gli faremmo ponti d'oro. Come che sia, Scarpia non sembra un ruolo capace di smuovergli qualche corda particolare. Ha voce genericamente bella e bene emessa, con tutte le note al loro posto, senza la minima ombra di forzature od opacizzazioni. Eppure, non dice niente. Dice poco o nulla nel Primo Atto, quando circuisce Tosca quasi per dover d'ufficio, e nel Te Deum è visibilmente distratto. Il Secondo Atto comincia con una scena scarsamente significativa, che fa emergere un buon canto ma poco altro. Le polveri si accendono un po' nel prosieguo, in cui anzi si apprezza il bando alle risate perfide che fanno tutti, ecceziona fatta per "Già mi dicon venal", che comunque non suona volgare. In ogni caso, l'unica trovata messa in atto è qualche stimbratura e tremolio vocalico, quasi dei piagnucolii, che non si capisce a che posta siano stati escogitati. Più civile e composto di Tito Gobbi lo è di sicuro, come pure miglior vocalista di Enzo Mascherini: ma uno Scarpia di Tagliabue, di cui esistono frammenti, probabilmente avrebbe avuto assai miglior riuscita.

In compenso, il comprimariato è pressoché perfetto, ed è composto da artisti di stanza al teatro romano. Ernesto Dominici fa un Cesare Angelotti di dizione incredibilmente minuziosa, canto rotondo e regolare (il Fa acuto di "Scarpia scellerato!" è raggiunto con leggerezza e senza pensarci, pare), e qualche notazione interpretativa da tenere a mente. Giulio Tomei, altro romano, è un Sacrestano dal timbro ampio e continuamente sfumato da un interprete spiritoso ma contenuto, davvero efficace. Nino Mazziotti, che con Zagonara si divideva i ruoli tenorili di carattere all'ex Costanzi, è un adeguato Spoletta, molto persuasivo. Persino Gino Conti, che si sdoppia in Sciarrone e Carceriere, sembra uno capace di cantare e interpretare ben altro. Unico buco nero, il Pastorello: che suona poco credibile nella voce della matrona Anna Maria Marcangeli, che sa cantare ma è del tutto sbagliata in questo ruolo.
In ogni caso, sulla dizione e la scansione dell'Italiano è dura trovare confronti a questa Tosca. E Gigli resta incancellabile.

@Pinkerton @Snorlax @Majaniello

Link to comment
Share on other sites

11 ore fa, Wittelsbach dice:

Ma il problema di questa Tosca è che è antipaticissima, scostante, quasi una virago divoratrice di uomini, una baccante. L'assalto di gelosia a Mario è quasi all'arma bianca, sembra voler compiere un "maschicidio".

Premetto che il mio è un ascolto di vent'anni fa, ma questa coppia la ricordo proprio così come la descrivi:

s-l500.jpg

Quanto a Gigli, ero troppo abituato ai Cavaradossi del dopoguerra per farmelo piacere, anche se Beniamino era invero più squillante di Tagliavini, Bergonzi, e pure Di Stefano. Oggi Gigli e Lauri Volpi mi sembrano gli unici tenori possibili nel repertorio di primo ottocento romantico italiano, in quel repertorio erano perfetti, peccato non avere tante registrazioni (complete soprattutto). 

A margine, che mi dite del Cavaradossi scelto da Puccini per la prima? (scusate la mania filologica):

 

Link to comment
Share on other sites

Veramente curiosa questa testimonianza! Voce simpatica e musicalmente ben quadrata! Fa anche qualche inflessione di garbata rabbia.

Quanto a Gigli, è interessante non solo per le capacità, ma anche per ascoltare un Cavaradossi "pittore". Tra l'altro, fino ai primi anni Trenta Tosca era cantata anche da Tito Schipa!

Link to comment
Share on other sites

On 24/2/2023 at 20:45, Wittelsbach dice:

Debbo dire di essere d'accordo, Pink. Qualche leziosaggine di troppo quando Infantino se la sarebbe cavata benissimo senza farle.

Intanto...

image.jpg

La Tosca "di regime"! Questa registrazione ha una fama quasi mitica, e francamente capisco perché, anche se non tutto quadra perfettamente. Fu incisa su 28 facciate di dischi a 78 giri dalla Hmv nel settembre del 1938, a Roma, coi complessi del teatro dell'opera che si mostrano più compatti e coesi di come sarebbero diventati nei decenni successivi. Lo diciamo subito: è la Tosca di Beniamino Gigli, che ci regala un Mario Cavaradossi dei più memorabili.

A dirigere, niente vecchi lupi della bacchetta. L'era del dualismo Carlo Sabajno-Lorenzo Molajoli, in rappresentanza rispettivamente di Hmv e Columbia, non esisteva più: le due case si erano fuse, quindi non era più il tempo di registrazioni a coppia della stessa opera, fatte per ragioni di concorrenza. Oltretutto, a breve sarebbero morti entrambi. Al loro posto, il trentaseienne romano Oliviero De Fabritiis, sulla breccia addirittura dal 1920 e attivo fino ai primi anni Ottanta (!), prodotto locale, allievo di Licinio Refice. Il giovane maestro tira le fila dell'opera con dinamismo, e non limitandosi a ossequiare un parterre di divi. C'è spazio addirittura per certi succosi dettagli strumentali, oltretutto messi bene in luce dall'eccellente remasterizzazione che Ward Marston ha fatto per Naxos Historical, l'edizione che ho prescelto. L'orchestra, dicevo, suona bene rispetto a quanto avrebbe fatto sentire più avanti, anche se qualche macchiolina traspare: le stonature dei legni a "Ella verrà... Per amor del suo Mario!" sono piccole ma fastidiose. Comunque, i tempi sono sempre giusti e indovinati, al pari delle sonorità.

Inevitabile, si parte da Gigli: un Mario Cavaradossi di una facilità di canto eccezionale, spontanea, discorsiva. Il lato artistico del pittore Mario emerge da una linea vocale che accarezza ogni nota con assoluta poesia, raggiungendo alti livelli nella Cavatina d'ingresso, nel duetto del Primo Atto e soprattutto nell'ultimo, in blocco. Oltretutto, qui il gusto di Gigli per sfumature piagnucolose è molto ben limitato: anche alla rischiosa "Io lascio al mondo una persona CARA", Gigli evita il plateale raddoppiamento fonosintattico della "c" che un Di Stefano (ma non solo lui) enfatizzava oltre il dovuto. Si apprezzano anche i momenti infuocati, dove lo squillo del registro acuto detta legge. Un grande. Tagliavini si ispirerà, come sempre, a Gigli nello scolpire il suo parimenti liricizzato Cavaradossi, ma con risultati inferiori perché meno fluido di tecnica.

Maria Caniglia, 33 anni, era al suo apogeo discografico, che dopo il '46 cesserà del tutto. La cantante napoletana fa capire perfettamente la convinzione di taluni autori (quorum ego) secondo cui negli anni Venti-Trenta le voci maschili surclassassero gran parte di quelle femminili per perizia canora e personalità teatrale. Non si può parlare troppo male della Caniglia: ha un vocione ampio, possente, all'epoca ancora rigoglioso anche nelle note basse, e lo usa senza risparmiarsi. Ecco, appunto: tanta voce, troppa. E non priva di peccati originali: gli acuti sono quasi tutti lievemente striduli, specie quelli estremi. Ma il problema di questa Tosca è che è antipaticissima, scostante, quasi una virago divoratrice di uomini, una baccante. L'assalto di gelosia a Mario è quasi all'arma bianca, sembra voler compiere un "maschicidio". Nel Secondo Atto ha grande grinta nei momenti più parossistici, ma quando deve declamare certe frasi esagera, e scade in un'imitazione parrocchiale di Tina Lattanzi: vi raccomando l'assassinio di Scarpia e quel che segue. Nel lirismo, malgrado qualche volonteroso sforzo di moderarsi, resta sempre qualcosa di irrisolto e duro nello svolgere le frasi, sicché il "Vissi d'arte" non è certo tra quelli imperdibili. La personalità è indiscutibile, ma è anche sommaria, monocorde e in fin dei conti non sempre centrata.

Per Armando Borgioli il discorso è opposto: elegantemente anonimo. Sarebbe interessante capire il perché della sua scrittura: all'epoca in Italia c'erano un sacco di baritoni (Inghilleri, Maugeri, Basiola, Tagliabue) di maggior caratura rispetto a lui. Il che tra l'altro è istantaneo di una realtà amara: avessimo oggi un Borgioli, che all'epoca era una seconda linea di lusso, gli faremmo ponti d'oro. Come che sia, Scarpia non sembra un ruolo capace di smuovergli qualche corda particolare. Ha voce genericamente bella e bene emessa, con tutte le note al loro posto, senza la minima ombra di forzature od opacizzazioni. Eppure, non dice niente. Dice poco o nulla nel Primo Atto, quando circuisce Tosca quasi per dover d'ufficio, e nel Te Deum è visibilmente distratto. Il Secondo Atto comincia con una scena scarsamente significativa, che fa emergere un buon canto ma poco altro. Le polveri si accendono un po' nel prosieguo, in cui anzi si apprezza il bando alle risate perfide che fanno tutti, ecceziona fatta per "Già mi dicon venal", che comunque non suona volgare. In ogni caso, l'unica trovata messa in atto è qualche stimbratura e tremolio vocalico, quasi dei piagnucolii, che non si capisce a che posta siano stati escogitati. Più civile e composto di Tito Gobbi lo è di sicuro, come pure miglior vocalista di Enzo Mascherini: ma uno Scarpia di Tagliabue, di cui esistono frammenti, probabilmente avrebbe avuto assai miglior riuscita.

In compenso, il comprimariato è pressoché perfetto, ed è composto da artisti di stanza al teatro romano. Ernesto Dominici fa un Cesare Angelotti di dizione incredibilmente minuziosa, canto rotondo e regolare (il Fa acuto di "Scarpia scellerato!" è raggiunto con leggerezza e senza pensarci, pare), e qualche notazione interpretativa da tenere a mente. Giulio Tomei, altro romano, è un Sacrestano dal timbro ampio e continuamente sfumato da un interprete spiritoso ma contenuto, davvero efficace. Nino Mazziotti, che con Zagonara si divideva i ruoli tenorili di carattere all'ex Costanzi, è un adeguato Spoletta, molto persuasivo. Persino Gino Conti, che si sdoppia in Sciarrone e Carceriere, sembra uno capace di cantare e interpretare ben altro. Unico buco nero, il Pastorello: che suona poco credibile nella voce della matrona Anna Maria Marcangeli, che sa cantare ma è del tutto sbagliata in questo ruolo.
In ogni caso, sulla dizione e la scansione dell'Italiano è dura trovare confronti a questa Tosca. E Gigli resta incancellabile.

@Pinkerton @Snorlax @Majaniello

In questo duetto, Wittel, è curiosa la caratterizzazione dei personaggi: la Caniglia è una Tosca materna, volitiva e quasi autoritaria, mentre Gigli è un Cavaradossi filiale, giovanile e spensierato.

Dal punto di vista strettamente tecnico -vocale, per calibratura di emissione, facilità di articolazione e bellezza di suono, nessun tenore della discografia supera Gigli.

In sede espressiva però Bergonzi gli è superiore.

 

Link to comment
Share on other sites

On 25/2/2023 at 08:36, Majaniello dice:

A margine, che mi dite del Cavaradossi scelto da Puccini per la prima? (scusate la mania filologica):

 

Anche se l'audio è quello che è, Maja, si capisce che De Marchi canta il "Vittoria! Vittoria!"  molto bene. La voce è timbrata,la dizione nitida e l'accento incisivo, carico un misto di gioia e rabbia. rendendo perfettamente l'indicazione "con grande entusiasmo" della partitura; il cantante inoltre, prima di attaccare, ci mette anche una pausa che accresce la tensione. Nulla a che vedere con il solito atletismo "ci do finché ne ho" sul Si bemolle acuto, stentoreo e a perdifiato, a cui siamo abituati, sostanzialmente gratuito e ostentato, oltre che molto spesso al limite della forzatura, che poi, per debito di fiato, mette a repentaglio la scansione delle frasi successive.

 

 

Link to comment
Share on other sites

image.jpg

La Hmv del 1930 si trovava a fronteggiare la concorrenza della Columbia, che poco prima aveva allestito una Traviata discografica con due divi (Carlo Galeffi e Mercedes Capsir) e un discutibile mezzo divo (Lionello Cecil, alias Cecil Sherwood), sotto la bacchetta del suo direttore Molajoli. Poteva restare indietro? No di certo. Allora, ecco il tuttofare Carlo Sabajno, a dirigere una compagnia del tutto differente. Laddove c'erano le star affermate, qui si punta su nomi promettenti, sui trent'anni o meno (Ziliani solo 24, addirittura). Eppure, il risultato è molto alto.

La remasterizzazione è ad opera del compianto Nikos Velissiotis, purtroppo scomparso lo scorso luglio. E' un nome che gli appassionati di Giorgio De Chirico conosceranno certamente, ma a noi interessa soprattutto la sua competenza nel campo delle registrazioni storiche: era lui il nome dietro la casa Arkadia, che per anni ci ha dato alcuni dei migliori riversamenti mai visti di incunaboli audio antichi. E qui non si smentisce: non si insegue il desiderio malsano di abolire del tutto il fruscio dei 78 giri, ma si tiene il suono naturale e nitido, ottimo per un disco del 1930.

Sabajno dirige in modo attendibile, con tempi decisamente svelti (le facciate dei dischi dettavano legge), con ritmi solleciti, forse addirittura troppo, ma sicuramente mai noiosi. L'orchestra della Scala è brava come sempre, al pari del coro. I tagli sono i soliti di sempre (ivi compreso, purtroppo, "E' spenta!), con in più mezza aria di Germont.

La protagonista è Anna Rosza, romena, classe 1899. Costei non appare forse nelle classifiche delle stelle più celebrate, ma ha una voce molto più fonogenica di quella della Capsir, oltre che maggior polpa e dolcezza timbrica. La sua è una Violetta molto soprano lirico, con poche tentazioni spinte: linea vocale morbida, curata, dolce e modulabile con disinvoltura, non a disagio nelle agilità della famosa cabaletta, piuttosto spigliata anche sugli acuti estremi che pure non erano la sua specialità. Abbiamo numerose notazioni e sfumature nei passi patetici, e soprattutto un'espressività intensa nel duetto con Germont padre e nel "Parigi, o cara". Lievemente stridulo e querulo è solo "Alfredo, Alfredo a questo core", un poco stimbrato e piagnucoloso. Nessun manierismo d'epoca, nessuno svolazzo, nessuno scoppio veristico.

Alessandro Ziliani fa della spontaneità la sua bandiera. Il tenore bussetano era appena diventato celebre, e ci ripaga con un Alfredo che rispecchia la sua giovane età con fremiti pieni d'affetto e di sincero trasporto amoroso. Del terzetto è forse il meno tecnicamente rifinito, ma ciò non gli impedisce di superare quasi tutti gli Alfredo successivi, a parte Bergonzi, Kraus, Pavarotti e non so chi.

Luigi Borgonovo, anche lui del 1899 come la Rosza, è penalizzato da una dizione nitida ma con troppo marcato accento meneghino, che forse ci si poteva aspettare da un milanese come lui. Certo non arrivò mai alla fama del suo quasi coetaneo e conterraneo Tagliabue, che aveva voce ben più rigogliosa. Però era un baritono bene o male della stessa scuola: emizione fluente, giudiziosa, morbidissima, a parte qualche tocco di naso sulle "i". E soprattutto, sa chi è Giorgio Germont e cosa dovrebbe dire. Sicché, la scena con Violetta si giova del suo accento sfumato, nobile e non sempre e solo beffardo, ma anche empatico all'occorrenza. Ottima anche l'aria, seppure mutilata.

Gli altri sono onesti professionisti, anch'essi tendenzialmente settentrionali nell'accentare ("La convalescénza non è lontana" del Grenville del bravo Antonio Gelli è esempio macroscopico), ma funzionalissimi alla bisogna.

@Pinkerton @Majaniello @Snorlax

Link to comment
Share on other sites

610-P0-ICtwk-L-AC-SX450.jpg

Dopo il disinteresse supremo suscitato dalla mia precedente recensione 😁 rilancio con quest'ultimo ascolto, di una Manon Lescaut pressoché introvabile in cd, forse uno degli album più fantasmatici della collana delle riedizioni Warner delle incisioni Rai Fonit Cetra. Eppure, non meriterebbe l'oblio: è una Manon viva, sincera, piena di sentimento e di vita. Forse preferibile a quella famosa con la Callas, Callas a parte.

La qualità dell'incisione è sorprendentemente brillante per gli standard Rai dei primi anni Cinquanta: ciò è certamente un bene, visto che gli ascoltatori siamo noi, e di solito ameremmo riuscire a sentire bene la musica che mettiamo sul piatto. Questo mono torinese del 1953 è sufficientemente presente e nitido da non deludere.
Del resto, pure l'orchestra della sede Rai sabauda suona davvero molto bene, dominata da un direttore che aveva legato il suo nome soprattutto al teatro verista. Federico Del Cupolo, sessantanovenne napoletano, non era proprio famoso, ed anzi era meno quotato di bradipi della bacchetta come Gabriele Santini. La sua, è una Manon veristissima. Il che è almeno in parte un errore. Ma se l'interpretazione ha questa coerenza, anche la Manon verista diviene affascinante. La diversità si nota soprattutto al paragone con la Emi del 1957, che costituì uno dei non molti passi falsi di Tullio Serafin: laddove il celebre veneto era piuttosto chiassoso e tirato via, Del Cupolo opta invece per un suono pieno, ricco, legatissimo, espansivo al massimo. E' una scuola interpretativa che risale ai primi del Novecento, ed è tuttora affascinante. A scapitarne è sicuramente il Primo Atto, che ha qualche pesantezza di troppo pur nel colore fastoso dello strumentale. Viceversa, i momenti più drammatici ed eloquenti, come il duettone del Secondo Atto o l'intero Terzo, vibrano di energia, di dramma e di commozione, grazie anche al concorso di validi interpreti. E' una colonna sonora da film di Matarazzo, si può dire: quei film erano semplicisti, talora esagerati, ma di sicura presa sul pubblico.

Clara Petrella si incastra perfettamente in questo quadro, dandoci una Manon molto personale. Non ha il tratto della gioventù nel suo timbro da donna navigata, questo è certo. Ma altrettanto evidente è il savoir faire eminentemente teatrale che ne governa l'interpretazione. Un fraseggio spontaneo, mai affettato, di immediata forza emozionale senza dare quel senso di falso tipico di certi soprani veristi (qualcuno ha detto Olivero?) è il lievito segreto di questa Manon, che peraltro si permette di ricamare un più che ragguardevole "In quelle trine morbide". La pestifera tessitura è dominata solo con modico stridore nelle note acute più estreme, e comunque si impone come un personaggio di alta statura.

Il poco considerato tenore Vasco Campagnano è senz'altro più terra terra, ma è un Des Grieux quasi sempre apprezzabile. Qualche parallelo col più giovane Mario Del Monaco mi viene da farlo: ambedue sono a disagio con le note guizzanti del Primo Atto, mentre rendono benissimo nel Terzo. Del Monaco in ogni caso la vinceva per incisività del declamare e per bellezza timbrica, laddove Campagnano prevale per l'emissione più ortodossa e per il maggiore squillo dell'ottava alta. L'emissione, in ogni caso, pare un misto tra Corelli e Bonisolli, con in parte l'ingolatura di quest'ultimo sulle prime note di passaggio. Ma a differenza del trentino, gli acuti di Campagnano sono più spontanei e meno muscolari. Dicevo: nel Primo Atto si incontra qualche disagio, "Tra voi belle brune e bionde" è alquanto ingombrante ed elefantiaco, al pari dei passi di conversazione. "Donna non vidi mai", pur essendo un po' sommario e rozzo, figura meglio, perché la voce si getta sulle espansioni all'acuto con ricchezza di suono e sincerità d'accento, sopra la vibrante orchestra di Del Cupolo. Il duetto con Manon lo vede gagliardo e forte, e più avanti "Ah Manon, mi tradisce il tuo folle pensiero" e "No, pazzo son" sono notevoli per impatto drammatico. Oltretutto, pur senza sforzarsi più di tanto, Campagnano riesce anche a fare qualche fraseggio dolce. Non male il Quarto Atto, senonché verso la fine il tenore scoppia in singhiozzi e piagnucolii francamente comici. Nel complesso, il personaggio c'è e convince.

A dir poco bravo il Lescaut sottile e cialtronesco di Saturno Meletti, che canta con morbidezza estrema e articola con una dizione che, in un cast che in questo eccelle, è forse la migliore in assoluto. Certi fraseggi insinuanti, disincantati e quasi perfidi sono un bijoux, e fanno del fratello di Manon l'ambiguo ruffiano che dovrebbe essere.

Pier Luigi Latinucci vocalmente e timbricamente non è nulla di speciale, ma si affida anche lui a una dizione da manuale e a una sensibilità tale da fargli comporre un Geronte completamente scevro di caricature e lazzi volgari.

Tra le parti di fianco, buone, spicca il giovanissimo napoletano Tullio Pane, che con la sua fresca voce tenorile e l'innata simpatia è un Edmondo semplicemente perfetto.

@Pinkerton @Majaniello @Snorlax

Link to comment
Share on other sites

21 ore fa, Wittelsbach dice:

Dopo il disinteresse supremo suscitato dalla mia precedente recensione 😁 rilancio con quest'ultimo ascolto, di una Manon Lescaut pressoché introvabile in cd, forse uno degli album più fantasmatici della collana delle riedizioni Warner delle incisioni Rai Fonit Cetra. Eppure, non meriterebbe l'oblio: è una Manon viva, sincera, piena di sentimento e di vita. Forse preferibile a quella famosa con la Callas, Callas a parte.

Io leggo sempre! non ho commentato perchè sei andato un po' troppo indietro nel tempo, non conosco incisioni così vecchie :D Questa è interessante, mai sentito nominare questo direttore. Dirò (ma l'avevo già detto in altre occasioni) che la Manon Lescaut EMI mi è sempre parsa poco riuscita (al netto di considerazioni tipo "avercene oggi cast così" ecc), sono tutti un po' fuori parte per ragioni diverse. Il binomio Giovane Scuola-Serafin è problematico, l'idea che negli anni mi sono fatto è che gli vengano bene i grandi tableaux (Boheme, Turandot) e meno bene le passioni violente (Manon, Tosca), del resto anche nel dittico Cavalleria-Pagliacci mi piace di più la seconda, più legata a certe sofisticherie da opera tardoromantica che al crudo verismo nel quale aspirerebbe a collocarsi. Anche la Callas, benchè canti ancora come la vergine Maria, non mi ha mai trasmesso quei lati contradditori che leggo io nel personaggio (al netto di un ultimo atto davvero grandioso). 

Link to comment
Share on other sites

Join the conversation

You can post now and register later. If you have an account, sign in now to post with your account.

Guest
Reply to this topic...

×   Pasted as rich text.   Paste as plain text instead

  Only 75 emoji are allowed.

×   Your link has been automatically embedded.   Display as a link instead

×   Your previous content has been restored.   Clear editor

×   You cannot paste images directly. Upload or insert images from URL.

  • Recently Browsing   0 members

    • No registered users viewing this page.

×
×
  • Create New...

Important Information

Questo sito o gli strumenti di terzi, usano cookie necessari al funzionamento. Accettando acconsenti al loro utilizzo - Privacy Policy