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Ragazzi non sono scomparso, sono solo in un momento introspettivo!
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Le recensioni operistiche discografiche di Wittelsbach
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Ma come ha fatto a sfuggirmi? Wittelsbach il distratto... In effetti, di questi tempi sono piuttosto distratto da varie incombenze, come notate dalla presenza intermittente. -
Le recensioni operistiche discografiche di Wittelsbach
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Eccomi. Come si suol dire, "Scusate il ritardo!". Sull'Otello di Toscanini ho poco o nulla da ridire, sono sincero. Si possono discutere su alcune cose, ma questo credo valga per ogni edizione dell'Otello che io abbia ascoltato (o visto dal vivo), e sono tante. Questa incisione del 1947 ci dà un saggio esemplare della drammaticità verdiana. Cominciamo a dire che fin dall'uragano iniziale abbiamo una rappresentazione di rara potenza. La scena ci appare nella sua stupenda efficacia, senza rallentandi pleonastici. La grande scena della trireme veneziana è ugualmente spettacolare sia per la scelta del tempo che per la concezione del suono. Ma i momenti ambigui, misteriosi o carbonari, in modo particolare quelli legati alle trame malvage intessute da Iago, non vengono per nulla lasciati cadere: se in altre opere Toscanini tendeva al monolitico, qui decisamente no. E anche gli accompagnamenti dei momenti estatici o patetici non hanno aridità. In sintesi: quello che piace, in quest'Otello, è la suprema unitarietà del divenire drammatico, di cui Toscanini è un perfetto regista. Ramon Vinay non è il mio tenore preferito. Eppure, mai si può dire sia stato altrettanto convincente sotto il duplice profilo vocale e teatrale. Se come interprete il cileno spesso si spendeva parecchio, dal punto di vista esecutivo la sua tecnica non eccelsa sovente gli tarpava le ali in ruoli troppo eseguiti ma che avrebbe dovuto evitare. Con Otello, almeno qui, siamo in regola. E' vero: nel Secondo Atto, in certi incisi di conversazione, il suo timbro inchiostrato pare più baritonale di quello di Iago. Poi, dicono che Del Monaco fosse il maniaco dell' "affondo": Del Monaco, malgrado tutto, aveva una voce che suonava infinitamente più "alta" di quella di Vinay, lui sì affondatissimo. Ma se negli anni Cinquanta Vinay diverrà pressoché bituminoso, qui non lo è ancora. E' anzi compatto, mai disuguale nei registri, in possesso di un gran buon legato. E per giunta, al netto di qualche sporadica rozzezza, ci regala un Otello non troppo monocorde, anzi capace di tratteggiare l'evolversi (anzi, l'involversi) del suo carattere con proprietà e convincimento. In particolare, "Dio mi potevi scagliar" è restituito alle ragioni del canto, senza indulgere nel declamato alla filodrammatica. E' un Otello asciuttissimo, talvolta addirittura intimizzato, decisamente ben riuscito. Di minor nitore la prestazione di Herva Nelli. Se la cava bene con le note del ruolo di Desdemona, con stridori soltanto fuggevoli nel tremendo secondo duetto con Otello e nel concertato. Però da un punto di vista interpretativo stavolta non mi ha lasciato molto di memorabile. E' una Desdemona piuttosto distaccata e forse addirittura burbera. L'ultimo atto potrebbe avere più abbandono. Il migliore qui però è Giuseppe Valdengo, ossia "della leggerezza e della disinvoltura". La voce chiara, tenuta leggerissima e insinuante, è prossima a quella di un tenore, e gli consente di mettere in atto una visione di Iago che è quella giusta: il tessitore d'inganni, roso dall'invidia ma lucido e intelligente. Le uniche cose che discuto? Per una voce come la sua, pressoché priva di note gravi, il "Credo" ha un paio di momenti imbarazzanti. Poi, nel corso del Sogno, l'imitazione del vaneggiare di Cassio a un certo punto gli fa escogitare una frase in falsetto, vagamente comica. Punto e basta. Il resto è maiuscolo, anche se gli acuti del Brindisi sono astutamente "finti", ossia scantonati in una frazione di secondo. Quanto agli altri, è sempre piacevole e tondo il timbro del Ludovico di Nicola Moscona, che però sembra sempre un po' un borbottone, data la tendenza a non legare i suoni. Super-eccellenti il Cassio di Virginio Assandri e il penetrante Roderigo di Leslie Chabay, senza contare un'Emilia VIP come Nan Merriman. @Pinkerton @Majaniello @Ives (condivido: evviva Richard Tucker!) -
La Dg ci dà dentro con le uscite eccentriche...
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Ti stai massacrando mica poco eh!
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Le recensioni operistiche discografiche di Wittelsbach
Wittelsbach replied to Wittelsbach's topic in Generale
Mi sto gustando proprio ora il suo Iago nell'Otello! Aveva idee geniali, quell'uomo. Mi stupisco che da metà anni Cinquanta fosse in pratica sparito dai dischi. -
Le recensioni operistiche discografiche di Wittelsbach
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Signori, giù il cappello. In questa Aida ci trovo un Toscanini affabulatore sincero, variegato, trascinante a 360 gradi. Sì, anche negli episodi più lirici e sommessi si sente una partecipazione emotiva che nelle due incisioni finora esaminate faticavo a scorgere. E questo nonostante l'enfasi del vecchio Maestro fosse anzitutto rivolta ai momenti più drammatici e turbinosi. Se la Traviata (soprattutto) e in parte il Ballo potrei definirli invecchiati, questa Aida del 1949 non mi suscita nessuna sensazione del genere. Abbiamo una lettura coerentissima, un divenire drammaturgico costante, accompagnato da un senso di narrazione che, contrariamente a Traviata, non sta col fiato sul collo dei personaggi, ma li accompagna, e addirittura li sprona ad andare avanti seguendo il loro istinto. Tante parti potrei enumerare: il Trionfo non è tirato via e nemmeno sciatto, ma austero e non meno spettacolare di altre incisioni più "coloristiche", pur nella sua evocativa asciuttezza. L'entrata di Amonastro è scabra e teatrale. Il duetto Aida-Radames contiene uno stacco trascinante del "Sì fuggiam da queste mura", e avvita la tensione sempre di più. La gran scena del giudizio è caratterizzata da blocchi di suono monolitici, implacabili, impositivi. E' un'Aida da kolossal, ma in bianco e nero, come quelli della Hollywood dell'era del muto, di Fred Niblo e del giovane De Mille. Il coro, per inciso, risponde benissimo a simile conduzione. Dei protagonisti, il più emozionante è probabilmente il sommo Richard Tucker. Con la Callas nel 1955 la sua prestazione sarà maggiormente chiaroscurata. Qui, il tenore yankee fa valere una baldanza giovanile che prefigura un Radames impetuoso, vitale, vigorosissimo, ben assistito da una voce ricca, morbida, squillante negli acuti. In ogni caso, non è che manchino raccoglimento e intimismo: il "Morir sì pura e bella" è un momento commovente. Herva Nelli non ha di sicuro lo stesso immediato impatto. A giocare a suo sfavore, è una gamma acuta non perfettamente padroneggiata, che si traduce in note spesso e volentieri un po' sfocate. In genere, il calibro vocale è più da soprano lirico che spinto. Ma occorre sentire la combattività del recitativo "Ritorna vincitor!" per rendersi conto di come la cantante fiorentina, americana d'adozione, sentisse spontaneamente l'espressività della parola verdiana. Dunque, il personaggio che abbiamo qui è concreto, non propenso a risolversi in bordate solenni del registro superiore, ma capace di toccare svariate corde di una psicologia che già all'epoca cominciava ad apparire più ricca e complessa di quanto non fosse sembrato. La scena finale con Tucker è molto bella, e tutto sommato anche il "Cieli azzurri" riesce. Chi è alquanto sbiadita è la norvegese Eva Gustafson nel ruolo di Amneris. Toscanini poteva scegliere Cloe Elmo al suo posto? Non so: la Elmo con gli acuti non aveva gran confidenza. Però la Gustafson è proprio insipida, di scarsa emozione e poco propensa a tracciare un personaggio probante. La voce poi non è proprio speciale, stride un po' nell'ottava superiore ed è gutturale in basso. Fa la figura della comprimaria o dell'intrusa. Forse, sulla carta, Amonasro non era ruolo idoneo alla voce di Valdengo, essendo un personaggio adatto, una volta tanto, anche a baritoni verdiani di colore scuro. La voce chiarissima di Valdengo difatti ha un registro basso debolissimo, e pure quello centrale non è che sia roccioso. Ma sapeva cantare, e sapeva fraseggiare. Così, la sua comparsa è una successione di accenti persuasivi, così come la preghiera al faraone sa farsi fintamente melliflua. Eccellente il duetto con la figlia, cantato con piglio e autorità da vendere al cospetto dell'efficace e sbigottita Aida della Nelli. E' qui, per inciso, che le debolezze in basso emergono: "Là tutto udrò!" si sente proprio poco. Ma sono sciocchezze. Norman Scott, anche se mi era piaciuto di più con Capuana, è ancora un Ramfis roccioso e granitico. Stavolta, tutte le parti di fianco sono ottime. Bravo il Re d'Egitto del canadese Dennis Harbour. Il Messaggero del tenore parmense Virginio Assandri ha incisività e nitidezza esemplari. E la Sacerdotessa, aprite le orecchie, è la giovane Teresa Stich-Randal, 22 anni, contemporaneamente prescelta a fare la Nannetta del Falstaff. @Pinkerton @Majaniello -
Ecco, meglio mettere un audio. Comunque, cinque anni sono proprio pochi, tranquillizzati. Io per cantare quasi decentemente, da dilettante, ho dovuto impiegarne almeno 10.
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@Pinkerton @Majaniello ci siamo persi questa succosa esegesi...
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In che senso? Esiste un Varèse conducts Varèse? 😮
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Wittelsbach replied to Wittelsbach's topic in Generale
Come sempre egregi. I momenti procellosi del duetto, sì, sono belli. Ma in genere quando l'atmosfera si movimenta Toscanini è trascinante. La faccenda del Renato-villain è la più spinosa. In ogni sua incarnazione (conosco anche un live con Mitropoulos) Merril tende a incattivirlo sempre un po', dandogli qualche tratto di Amonasro o addirittura Barnaba. Voglio metter qui una "Eri tu" di un baritono che mi ha sempre appassionato: Carmelo Maugeri. Lui, Giovanni Inghilleri e Luigi Montesanto erano una sorta di Santissima Trinità della corda baritonale sicula (e non dimentico l'immenso Augusto Beuf). Nella fattispecie, Maugeri cantò sino agli anni Cinquanta, spostandosi sui ruoli buffi. Era un grande, ma non considerato una superstar. -
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Wittelsbach replied to Wittelsbach's topic in Generale
Sentendo questa registrazione del Ballo del 1954, ultima incisione operistica completa del Maestro, un mio antico dubbio ha trovato risoluzione: ecco dove Gianandrea Gavazzeni, nella bruttina versione DG del 1960, ha copiato il grattare degli ostinati degli archi in corrispondenza di "O qual soave brivido". Da Toscanini. Lui fa lo stesso, anzi di più. L'effetto non posso dire che sia bello. A parte questa parentesi personale, posso dire che l'atteggiamento di dittatura ritmica che vediamo qui si adatta al Ballo molto più che a Traviata. Oltretutto, in molti altri per quest'opera seguono lo stesso approccio, da Leinsdorf a Muti. Gli stacchi ritmici dell'anziano direttore conducono non di rado a esiti travolgenti. Posso citare la bellissima riuscita del Terzetto dei "Passi spietati", ma conviene anche menzionare un po' tutta la scena della congiura, o la cabaletta che conclude il Primo Quadro. Dal canto loro, gli accordi che annunciano la magione di Ulrica sono secchi e atmosferici. In genere, l'aspetto politico dell'opera è ben sviscerato. Piuttosto carente è semmai l'elemento sentimentale e patetico: il Duetto tenore-soprano, anche a prescindere da quel momento a parer mio rozzissimo, è gelido. La mazurca della scena del ballo è oggettiva e ghiacciata. Perfino la morte di Riccardo pare un mero trafiletto di poche righe nelle cronache locali. Tuttavia, complessivamente il clima è più "giusto", a mio gusto, rispetto all'epopea di Violetta Valéry. La protagonista che abbiamo qui è la rispettabile Herva Nelli, che era italiana malgrado il nome ingannevole e il trasferimento in Usa in giovane età. Si tratta di un soprano con voce né bellissima né strapotente. Il settore acuto, in particolare, denota manchevolezze di proiezione e di volume. Tuttavia, siamo al cospetto di un'Amelia persuasiva, empatica, di buon pathos nel "Morrò, ma prima in grazia", di commossa vulnerabilità. Una prestazione professionale, surclassata vocalmente da altre (Price Leontyne, Price Margareth, Nilsson, Antonietta Stella - forse il suo ruolo verdiano meglio riuscito -, anche la criticata Callas) ma credibile e viva. Jan Peerce è nuovamente il professionista solido e quadrato che conosciamo. Ma anche qui, abbiamo grande diversità con suo cognato: Richard Tucker, nei panni di Riccardo (ci sono varie testimonianze dal vivo), aveva lieviti segreti che qui non è dato di scorgere. La voce non è nulla di speciale, pur non facendo sentire cose davvero terribili: pare di essere di fronte al Riccardo di Domingo, altro cantante intelligente ma in definitiva estraneo alla parte. Fin dalla Cavatina introduttiva, emerge una foga alquanto superficiale. L'umorismo è a grado zero, e questo si avverte crudamente nel micidiale "E' scherzo od è follia", in cui le risate sono talmente forzate e innaturali da sembrare colpi di tosse. Sul patetico poi è debole e scarso di abbandono, anche se qui Toscanini certo non aiuta. La Barcarola è musicalmente accurata, ma povera per non dir priva di leggerezza. E l'aria dell'ultimo atto è sbrigativa, conclusa poi da un "Si riverderti Amelia" di squillo non proprio adamantino. Corretto ma grezzo. Piuttosto grezzo anche Robert Merrill, anche se con lui scompare ogni estraneità: il personaggio lo conosceva benissimo, e vocalmente era perfetto per le sue misure. Merrill qui è più rifinito rispetto alla successiva incisione con Leinsdorf, si butta meno di peso sugli acuti, è meno pesante di emissione e fa valere una grinta notevole, malgrado una dizione non ineccepibile. Resta sempre qualcosa di volgarotto nel suo canto, anche se l'effetto teatrale è sempre raggiunto, soprattutto alla scena della congiura. Il punto critico, anche stavolta, è la sua "Eri tu", in cui manca di abbandono e di morbidezza, rendendo oltretutto il legato abbastanza impuro e non riuscendo a cantare piano. Tra gli altri, mi è piaciuta la voce pur disuguale ma personalissima di Claramae Turner, dai gravi ampi e non troppo pompati, e soprattutto capace di accentare Ulrica con persuasività. L'Oscar di Virginia Haskins, hanno detto, non sarebbe una soubrette. Secondo me lo è: non una soubrette-pupazzo, ma una soubrette elegiaca, poco frizzante anche se precisa nel canto. Sembra anche un po' fioca, ma non è per nulla sgradevole, anche se un paragone con la Gruberova sarebbe improponibile. Nicola Moscona e Norman Scott "fanno" Samuel e Tom senza demeriti né lodi particolari, mentre mi è piaciuto molto il Silvano baldanzoso di George Cehanovksy, quasi 3mila recite al Met e marito di Elisabeth Rethberg. Morale: forse non benissimo, ma bene. Il "benissimo", a mio modo di vedere, arriverà con l'Aida, che sto proprio ora ascoltando. @Ives @Majaniello @Pinkerton -
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Wittelsbach replied to Wittelsbach's topic in Generale
Avete piazzato tutti dei commentoni, poco da dire. La cosa della wagnerizzazione di Verdi è una cosa che qualcuno ha detto, ma che ha scarso senso (e direi che lo pensi anche tu, @Majaniello ) : quello di Toscanini è purissimo Verdi, altro che Wagner. Senza andare necessariamente alle opere tarde, secondo me la peculiare visione toscaniniana (perché è evidente che sia la sua scelta) si adatta molto meglio, tanto per dire, al Ballo in Maschera che sto sentendo in questo momento: ci trovo più varietà ed elasticità ritmica, oltre alla carica propulsiva, e i momenti più discutibili secondo me sono pochi. Il Ballo condotto così ha più senso di una Traviata diretta nel medesimo modo secondo me, voglio dire. I cantanti cani della Traviata... Una divertente metafora, giusta a metà, ma non sbagliata. Parlando del Ballo, entra in campo la sottovalutata Herva Nelli, che avrà qualche difetto ma se la cava in modo abbastanza egregio in una delle parti più carogne di tutto Verdi... Ne scriverò, quando avrò finito. -
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Wittelsbach replied to Wittelsbach's topic in Generale
Incredibile come due delle Traviate più controverse della storia del disco, questa e quella di Kleiber, abbiano a mio modo di vedere gli stessi punti di contatto: l'essere appunto controverse (di consenso critico nient'affatto plebiscitario), l'avere soprano e tenore almeno in parte deficitari accanto a baritoni che se la cavano viceversa bene, e una condotta orchestrale che presta il fianco a molte perplessità. Io non amo né l'una né l'altra, ma riconosco che a quella di Kleiber, pure menomata da un atteggiamento verso la partitura degno di vent'anni prima in materia di tagli, è da attribuire una varietà ritmica che invece Arturo Toscanini rifiuta del tutto. Dicono che Traviata sia il disco di Toscanini più bersagliato dai critici, anche anglosassoni. Beh, posso capire perché. Toscanini è ossessivo, ai limiti del metronomico e anche oltre. Non puoi dirigere Traviata senza un minimo di sprezzatura ritmica e dinamica, altrimenti ottieni solo una corsa a perdifiato che corre e corre senza sapere dove. Questo collage di recite in forma di concerto di fronte a un disciplinato pubblico, in fin dei conti, non consente nessuna riflessione sui personaggi e sulla vicenda. E' teatralità svolta secondo la sua direttiva più superficiale. Può non annoiare, ma quando ti accorgi che è tutto uguale la noia arriva lo stesso. Ho trovato un guizzo solo nella festa a casa di Flora Bervoix e nella partita a carte: lì, la totale mancanza degli usuali rallentamenti alle espansioni del soprano è molto efficace. Ma per dirne un'altra, il Brindisi del Primo Atto è asettico e indifferente. Un po' tutto l'Ultimo Atto soffre poi della monolitica impostazione toscaniniana, particolarmente cinica al "Parigi o Cara", ove è bandita qualunque affettuosità. Ci sono poi alcune scelte foniche che destano preoccupazione: la frase degli archi che introduce la prima comparsa di Germont ha toni e sonorità da colonna sonora di un prodotto horror della quasi coeva Hammer Film. Poi c'è il rapporto col canto: scarso per non dir nullo, si concretizza in parte solo con la protagonista, che pure è un'esecutrice di cui faccio volentieri a meno. Era la stessa cosa avvenuta con Kleiber: anche lui aveva le sue idiosincrasie, ma nel suo caso erano snobistiche, e Renato Bruson alla Scala ebbe modo di capirne qualcosa... Licia Albanese è amatissima negli Stati Uniti (di cui fu cittadina onoraria) e anche da qualche sparuto loggionista sopravvissuto. Le riconosco un certo dinamismo nell'esecuzione dell'Allegro brillante "Sempre libera", in cui è comunque a disagio negli acuti, raggiunti e subito lasciati con consumata furbizia scenica. Nel resto, la trovo una Violetta di mezzi limitati e volgarotta nell'espressione, che spesso e volentieri singhiozza e piange proprio (la prima volta nel Duetto con Germont). La voce è di timbro bruttino, sbiancata, tendenzialmente appiattita da un'emissione tragicamente vecchio stile, di quelle che si usavano tra le cantanti negli anni Trenta. L'interprete, dicevo, è sostanzialmente verista, querula e troppo triviale per consentire all'ascoltatore empatia e immedesimazione. Viene da dare ragione a papà Germont, che vede suo figlio perdere la testa per una bisbetica inacidita che sembra provenire da postriboli d'infima classe. Jan Peerce è un tenore corretto, col quale certa critica, a causa del sodalizio con Toscanini, si profuse in veri e propri esercizi di minimizzazione, se non di reticenza. La pronuncia è lambiccata e americanizzante (cosa che qui vale per tutti, Albanese esclusa), ma la cosa non è mai stata fatta notare, mentre veniva rimproverata a suo cognato, il molto più emozionante Richard Tucker. La tecnica vocale e il timbro non suscitano particolari lusinghe, mentre l'interprete è genericissimo, propenso solo a un moderato e superficiale slancio che rende ogni frase identica all'altra, con cronica mancanza d'affetto e galanteria, ma non per questo con il giusto piglio nella scena delle carte. Dice poco o niente. Per Celletti, il grigiore di questa prestazione è da imputarsi al rigorismo toscaniniano, ma personalmente non ne sono tanto convinto. Mi è venuto in mente, una volta di più, il corrivo Domingo dell'edizione Kleiber. Se non altro Peerce non deve fare un falso Do acuto alla fine della cabaletta, perché la cabaletta proprio non c'è... Per chi conosca le sue incisioni degli anni Sessanta, il giovane Robert Merrill è sorprendente: più tonda e omogenea la voce, più agevole e leggera l'emissione, più curata la pronuncia, più attento l'interprete. Il Duetto con Violetta è cantato con espressione onesta e sommessa, da vera scena di conversazione. Toscanini, qui come nel "Di Provenza", tende a trascurare i segni d'espressione, ma il Germont di Merrill crea un personaggio nobile e signorile, credibile e senz'altro superiore a quello cantato con la Sutherland. Comprimari di bassissimo profilo, con l'assurdo di un'Annina che biascica in ostrogoto. Il solo Gastone di John Garris, tenore che nel 1949 sarebbe stato assassinato (!) a soli 36 anni, è di buon conio. Gli altri sono tremendi. @Pinkerton @Majaniello -
Introvabile questa, se non su Spotify!
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Wittelsbach replied to Wittelsbach's topic in Generale
Secondo te tra soprano e tenore "vince" il tenore? -
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Wittelsbach replied to Wittelsbach's topic in Generale
@Pinkerton se vuoi qui c'è l'opera al completo -
Ehi miasko, qual buon vento! Intanto... Col massimo della reverenza e del rispetto: per me è NO.
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Wittelsbach replied to Wittelsbach's topic in Generale
Oso dire che se Hadley avesse sfumato e variato di più, sarebbe stato un grande Rodolfo nel solco del modello-Pavarotti. Intanto... La Preiser ci regala questa Aida registrata nel 1953 a Venezia dalla statunitense Remington. E' una registrazione low cost, ma di lusso, perché annovera anche elementi di una certa fama, seppure all'inizio del percorso artistico. Il suono è variabile, ma nel complesso abbastanza godibile. Vale la pena un ascolto? Ora vediamo. L'opera è piuttosto ben diretta dal navigato Franco Capuana: all'inizio serpeggia qualche momento generico, ma poi la bacchetta prende quota, dosando molto bene le grandi scene d'assieme (direi proprio ben riuscito, il Trionfo) e accompagnando con giudizio ma senza remissività. L'orchestra della Fenice, una volta di più, mostra come prima degli anni Sessanta fosse di livello ben diverso rispetto ai decenni successivi: compatta, incisiva. Il coro forse un po' meno, ma anche lui è di buona pasta. Mary Curtis, come Aida, per fortuna non ripete il mezzo disasatro fatto con l'Amelia del Ballo ripresa a Torino dalla Rai negli stessi anni. Ricorda in qualche modo (in piccolo eh!) la Callas, perché qui prova a immascherare registro centrale e basso, che non suona mai aperto e piatto come nella maggioranza delle colleghe dell'epoca. La voce in sé non ha particolari qualità, e anzi sugli acuti tende a punzecchiare e a stridere un poco. Il settore centro-alto, però, è morbido e modulato, anche se non seducentissimo. La Curtis gioca la sua Aida tutta in chiave lirica, in qualche modo allacciandosi a Giannina Arangi-Lombardi. L'intendimento porta a discreti risultati nel "Ritorna vincitor!" e nel "Cieli azzurri", che pure è concluso da un do acuto non esattamente da copertina. In genere, il personaggio è risolto con sonorità dolci ed espressive, che danno alla sua esecuzione un sapore insolito e tutto sommato abbastanza gradevole, seppur senza giganteggiare. Molto ordinario è semmai il Radames del simpatico toscano Umberto Borsò, un cantante allora agli inizi e destinato a onorata carriera in provincia e talvolta in qualche teatro maggiore. Oggi un simile tenore, pur con tutti i suoi difetti che vedremo, verrebbe forse impiegato ovunque. Si capisce invece perché all'epoca non divenne una star: la voce è abbastanza bella, ma non personalissima; la tecnica è piuttosto corretta, ma il cantante gonfia i centri (sentire "Sì, fuggiam da queste mura"), col risultato che gli acuti sono timbrati ma anche affetti da un certo grado di fibrosità. Quanto alla personalità, è proprio povera: un Radames annoiatissimo, decisamente uniforme, che non dà sapore a quel che canta. Troppo impersonale come personaggio, e non abbastanza eccezionale come vocalista, Borsò non è un Radames terribile, ma nemmeno offre qualche motivo per ricordarlo. Qualche problema del genere ce l'ha Oralia Dominguez, malgrado una vocalità molto più rigogliosa. La giovane messicana si era fatta notare nel suo Paese nel corso di una famosa tournée callasiana con Del Monaco. Se là aveva esagerato parecchio, qui incorre nell'eccesso opposto: un'Amneris timida e decisamente troppo morigerata, che non va in alcuna direzione riconoscibile. Il timbro è pieno e brillante, l'esecuzione ricca e gagliarda malgrado gli estremi acuti si stirino e si scompongano un po', ma non dice niente. Dice molto invece il sobrio, nobile ma anche barbarico Amonasro di un Ettore Bastianini colto giusto prima che firmasse il contratto con la Decca. La sua esecuzione è limpida, chiara, facile, caratterizzata da una bella dizione (cosa che vale anche per Borsò) e da un passaggio di registro all'epoca armonioso e non troppo gutturale. Uniamoci anche che è espressivo: forse convenzionale, ma dà senso a quello che canta, e del resto il personaggio non consente troppe sottigliezze. Norman Scott, che si era già visto all'opera con Toscanini, è un Ramfis di buon valore, ottimo soprattutto nel "Nume, custode e vindice" e capace anche della giusta implacabilità. Enzo Felicitati dal canto suo è un Re d'Egitto dalla vera voce di basso, e per giunta d'accento giustamente autorevole. Veramente bravo, per finire, il Messaggero del veterano della Fenice Uberto Scaglione, che canterà fino alle soglie degli anni Ottanta. A questo punto, voglio sentire come se la caverà la Curtis nell'Aida registrata con Corelli. @Majaniello -
Tra la roba in arrivo ci siamo dimenticati un'opera composta da Dorati...
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E infatti non l'avevo mai sentito!
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Wittelsbach replied to Wittelsbach's topic in Generale
Ricordo, ricordo... Non avevo risposto perché personalmente non avevo nulla da aggiungere. Semmai, dico che non solo Hampson ma anche Hadley in futuro avrebbero dato prove teatralemente compiutissime, e dunque Bernstein ci aveva visto lungo. -
Le recensioni operistiche discografiche di Wittelsbach
Wittelsbach replied to Wittelsbach's topic in Generale
"What a mess, maestro Bernstein!". Mi viene da dire questo, dopo l'ascolto di questa Bohème, registrata dal vivo lungo tre serate preparate con cura a Santa Cecilia, e pure con un certo battage di stampa. Usare l'inglese è quantomai appropriato: di italiano, in questa Bohème, non resta proprio niente. Bernstein si era già accostato al capolavoro di Puccini alla Scala, nel 1954/55: su ebay si trova un programma di sala su cui si leggono i nomi di un cast che contemplava Poggi, Mascherini, Italo Tajo. Tuttavia, pare che la geniale bacchetta americana vagheggiasse da tempo l'allestimento dell'opera con cantanti tutti giovani, almeno nelle parti che imperativamente richiedessero tale caratteristica anagrafica. Il sogno si concretò nel 1987: Santa Cecilia, con cui collaborava fin dal 1948 e con cui realizzò dischi bellissimi come quello di Debussy con la stessa Dg, gliene diede l'opportunità, in alcune serate, in forma di concerto non scenico. Bernstein era estasiato, lodando a mille l'apporto del suo cast che definiva "magnifico". Ok, è come l'oste che dice che il suo vino è buono. Vogliamo parlarne? Trovo, personalmente, che Bernstein fece della Bohème la stessa cosa che realizzò a Vienna col Rosenkavalier: la approcciò facendone un musical. Sbagliato? Mica tanto: la vicenda si presta. Dunque, abbiamo ritmi vivacissimi, colori sgargianti, sintassi cinematografica nella narrazione di un'orchestra che risponde magnificamente alle sollecitazioni del suo direttore. Sinceramente, trovo molto bella la pulsione teatrale di tutta la vicenda: non ho particolari momenti da ricordare, perché la narrazione è splendidamente coerente e unitaria da non far risaltare nessuna parentesi eccentrica. Il coro, poi, sa quello che fa. Il coro, volendo sottilizzare, è l'unico personaggio davvero italiano. Occorre intendersi: quasi tutto il cast sa pronunciare la nostra lingua. Il problema è che la dizione è quella che è: non c'è attenzione alla parola, scolpitura, accento sorgivo che nasca dal cuore stesso delle frasi. Quelli che interpretano, "sovrappongono" le loro sporadiche intuizioni alla linea vocale, e restano poco spontanei, costruiti. Quelli che non interpretano, invece, sono noiosissimi. Ma non c'è familiarità con la parola scenica, neanche un po'. Giovani, ok: ma per una visione come quella di Bernstein (e non solo per la sua) sarebbe stato il caso di scegliere elementi un po' più esperti e scaltriti. Oltretutto, a fine anni Ottanta, si vedono riproposti alcuni cliché ormai passati di cottura: per esempio, Benoit e Alcindoro vecchi babbei rincretiniti. Il quarantenne Joseph McKee, nei panni del primo, in particolare è abominevole per gli schiamazzi e le guitterie americanizzanti che escogita. Alcindoro è invece il più vecchio Gimi Beni (classe 1924), ma è solo marginalmente più contenuto. Ma davvero in America avevano questo concetto del comico pucciniano anche in anni così recenti? Tra le parti principali, spicca la futura star Thomas Hampson, che proprio allora era diventato famoso, e fa valere la voce dei suoi anni di gioventù: timbrata, tonda, facile, tecnicamente molto raffinata. Certo, un Marcello che sa cantare, e pure benissimo. Ma col fraseggio, non ci siamo. All'epoca, Hampson non era ancora il sofisticato alchimista teatrale che sarebbe diventato, ma non per questo è spontaneo: anzi, elargisce qualche gigionatina fin dall'iniziale "Fa un freddo cane!", per poi dilagare nel litigio con Musetta. Si sente che il personaggio è costruito. Poi, ha il problema della parola: l'italiano è buono, ma la dizione non è ben distinta. Questo vale per i quattro amici al completo: nelle loro scene, si percepiscono solo le vocali intonate, e le parole sono immerse in una specie di nebbia. La poco blasonata (ma neanche tanto, a vedere il cast) registrazione di Santini al confronto in tali scene ci riporta sul pianeta giusto. Canta non male anche Jerry Hadley, pure lui alla soglia della celebrità. Ma è proprio noioso! Canta tutto forte, tutto uguale, tutto voglioso di far vedere la sua bella voce ricca di squillo, che difatti sciala per ogni dove. Di una riproposizione dello spento Gianni Poggi, sia pure con canto assai più corretto e accattivante, sinceramente potevo anche fare a meno. Paul Plishka è certamente il più esperto in campo, ed era già apparso in disco come Colline, ma non lascia il segno. Più che nel modo di cantare, correttissimo ma non super, la sua forza è sempre stata nell'interpretazione: che qui stranamente manca quasi del tutto. Davvero curioso. Ma sempre meglio di Schaunard: tale James Busterud, brutta voce, emissione ingolata e aperta, sguaiato nel canto e nel fraseggio di gusto decisamente volgare. Scadentissima la protagonista. Angelina Reaux pare un misto di Kathleen Battle e Barbara Hendricks, come dire due dei modelli di soprano meno raccomandabili. Ha una leziosità gelida nel fraseggiare, che si scuote solo in momenti francamente piagnucolosi qua e là. Come voce, poi, non ci siamo proprio. Dopo un duetto Mimì-Marcello come quello dell'accoppiata Carteri-Taddei, sentire questi gridolini sugli acuti e questi affondi al grave gutturali, postribolari e grotteschi è veramente sconcertante. Più solida e meglio organizzata Barbara Daniels, che farà una discreta carriera. Almeno in un punto, anzi, ossia la preghiera di Musetta, questa cantante riesce espressiva perché fa scaturire l'espressione dalla stessa curva della frase, con effetto molto bello. Ma nel resto, abbiamo l'inserzione di sghignazzamenti, urletti e urlacci che sembrano appiccicati con lo scotch, tanto sembrano innaturali e forzati. Per concludere l'opera, segnalo che nei panni di Parpignol c'è Don Bernardini, uno che con sommo sprezzo del pericolo (e del ridicolo) pochi anni dopo affrontò addirittura i Puritani: qui è sgradevolissimo. Occasione in definitiva sprecata. E' uno di quei dischi per cui vale la pena che esista Spotify: un ascolto occasionale. @Ives @Pinkerton @Majaniello -
Da tempo non mettevo sul piatto il polacco! Denghiu Ivessss!
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Le recensioni operistiche discografiche di Wittelsbach
Wittelsbach replied to Wittelsbach's topic in Generale
Pinkerton, ti ricordi "Il Maresciallo Rocca", la serie Rai? Il giornalista Passigli, interpretato dal sommo Gianni Musy, ascoltava sempre la Bohème. E indovina un po'? Sentiva proprio questa edizione! L'ho riconosciuta all'ascolto. Mi pare anche giusto, essendo prodotta dalla Rai, che si sia sfruttato materiale "di casa".